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È uscito di recente, nel febbraio del 2010, Echi nella valle di Giuseppe Brancale (1925- 1979), originario di Sant’Arcangelo di Potenza in Basilicata, insegnante, uomo di fede socialista, prematuramente deceduto a Firenze a causa di una crudele malattia a

È uscito di recente, nel febbraio del 2010, Echi nella valle di Giuseppe Brancale (1925- 1979), originario di Sant’Arcangelo di Potenza in Basilicata, insegnante, uomo di fede socialista, prematuramente deceduto a Firenze a causa di una crudele malattia a soli cinquantaquattro anni. Si tratta di un romanzo significativo per la letteratura nazionale, edito nel 1973 da Pellegrini di Cosenza e in un’edizione destinata alle scuole da Teorema, nel 1975. Lo ha ora riproposto Polistampa a Firenze ed è il secondo tomo dopo Il rinnegato (2007) nel piano delle «Opere complete» in quattro volumi dell’autore lucano. La cura di Luca Nannipieri si segnala per l’utile corredo di notizie sul contesto biografico e storico e per le Pagine ritrovate: lettere, note al testo, recensioni e fotografie che arricchiscono l’edizione di oggi. Per inquadrare Echi nella valle conviene lasciare spazio alla voce dell’autore (dall’introduzione alla seconda edizione, 1975): «Lo scenario dove si svolge la vicenda trattata nel libro è una delle Regioni d’Italia attualmente meno conosciute. Tuttavia è stata madre di antiche civiltà, considerando che quando la sua storia uscí dal mito ospitava un popolo con istituzioni libere e repubblicane. Allora la regione si chiamava Lucania. Ora, si chiama Basilicata, nome che le fu imposto dai “basilischi”, governatori locali ai tempi dell’impero bizantino». È utile come viatico alla lettura di Echi nella valle lo stesso brano introduttivo del curatore Luca Nannipieri: «Il romanzo racconta le vicende parallele di Marco Laviano, in epoca romana e Andrea Salinatore, tra la guerra d’Etiopia (1935-36), la Seconda guerra mondiale e il secondo dopoguerra […]. Con Echi […] siamo nel periodo della guerra sociale contro Roma, tra il 91 e l’89 a. C. In questo periodo, mentre le altre regioni d’Italia insorgono per ottenere la cittadinanza romana, la Lucania insorge per ottenere una vera e propria indipendenza da Roma» (p. 14). Torniamo ora, di nuovo, alla voce di Giuseppe Brancale: «Ma che importanza può avere il cambiare nome ad una Regione, una delle tante della terra, se il tempo passa e i travagli restano?» (p. 13). Per meglio chiarire il contesto da cui nasce l’interrogativo cruciale posto da Brancale, basta rileggere le due lezioni sulla «Questione meridionale » che troviamo in apparato al primo volume delle «Opere»: Il rinnegato (cit). Dedicate alle scolaresche della scuola media, tra il 1975 e il 1977, quelle due lezioni sono una pagina esemplare di chiarezza e di sintesi critica delle vicissitudini antiche e nuove del Mezzogiorno d’Italia. Enucleo qui due scenari davvero illuminanti: il primo getta luce sui secoli che precedono l’epoca moderna e si riassume in questa conclusione: «Il Mediterraneo era ancora il Mare Nostrum, via d’intenso traffico per le nazioni europee. Ma, con la scoperta delle Americhe, esso fu abbandonato come via di comunicazione europea ed africana, perché i nuovi traffici di commercio divennero intensi al Nord: la nuova strada era l’Atlantico, che fece la fortuna specialmente dell’Inghilterra, della Francia e della Spagna, in continuo contatto con il nuovo Mondo. Allora le regioni rivierasche meridionali videro sempre meno vele sul mare e, non pochi, furono quelli che dissero “La nostra povertà diventa miseria”. E fu miseria. Perché la terra, continuamente sfruttata, dava poco e dal mare non giungeva piú nulla. Cosí ebbero origine le carestie. Infatti, fino alla fine del Settecento, unico succedaneo del frumento era l’orzo, essendo ancora sconosciuti il mais e la patata [referenza bibliografica: Giacomo Racioppi, Storia dei popoli di Lucania e Basilicata, Roma, Loescher, 1889], (p. 205, op. cit.). Nella seconda lezione sulla questione meridionale, dopo avere sagacemente illustrato la nascita della Camorra come presidio «al servizio del Re e dei potenti», soprattutto sotto Ferdinando IV salito al trono di Napoli dopo l’uscita di scena del pur illuminato padre, Carlo III dei Borboni (tra l’altro, la Mafia nacque, in un primo tempo, per avversare la Camorra, ma poi degenerò anch’essa in «una grande centrale di potere» basata su un proprio «Codice d’Onore»), l’analisi storica di Brancale procede lucidissima. In particolare: «La Storia del 1860 è piena di fatti epici delle Camicie Rosse, ma sarebbe stato doveroso aggiungere che essi non sarebbero serviti a fare l’Unità d’Italia se il Popolo non fosse insorto e l’Esercito borbonico non avesse disertato in massa» (p. 209, op. cit.). E ancora: «Ed eccoci al 1861, quando Vittorio Emanuele II aveva già mandato nel Sud schiere di funzionari e di soldati piemontesi, che occuparono tutti i posti chiave delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni». E piú avanti, leggiamo: «Fatte le debite eccezioni, tanto piú onorevoli quanto piú rare, ben si può dire, con tutta verità, come ogni ramo di pubblica amministrazione fosse infetto dalla piú schifosa corruzione. […] Libertà nessuna, né ai privati, né ai municipii. Piene le carceri e le galere dei piú onesti cittadini, commisti ai rei dei piú infami delitti. Innumerevoli gli esiliati. Gli impieghi concessi al favore o comperati». Giuseppe Brancale spiega poi la massiccia emigrazione, per esempio, in Argentina, e il nuovo brigantaggio. A quando, tempi migliori? Dopo il 1870, dal momento che «le condizioni di vita diventarono sopportabili anche nel Meridione». Cosí «l’emigrazione fu liberalizzata e incoraggiata, nei Comuni sorsero le prime scuole elementari, volute dal Governo ma pagate dalle amministrazioni locali; fu allentata la morsa delle tasse; furono decretate opere di bonifica ed altre opere di pubblica utilità, come le prime strade rotabili, i primi tratti di linee ferroviarie e le vie di raccordo tra città, paesi, borghi e campagne». L’autore osserva, con l’ottimismo della volontà e il pessimismo di un’intelligenza sempre vigile, che «finalmente il Meridione si svegliava tutto e usciva per sempre dal suo secolare isolamento. […] Quindi, terre piú che insufficienti a dare un margine di guadagno al contadino e industrie insufficienti e talora traballanti a dare un lavoro sicuro a tecnici e operai sono i due fattori principali della nuova ondata migratoria». E qui davvero si sfiora la piú scottante attualità. L’intrinseca bellezza di Echi nella valle sta nella scrittura tersa di gusto classico ed elegante come il testo di un classico antico, poniamo il De bello gallico nella prosa nitida di Giulio Cesare. Alla fine, la risoluzione di sapore teatrale, intrisa di storia vissuta, che identifica Marco Laviano, il centurione romano drammaticamente “vinto” al ritorno nella terra d’origine, la Lucania, esattamente come, venti secoli dopo, accade al reduce della guerra d’Etiopia Andrea Salinatore. In questo parallelismo tra antico e moderno sta certamente un avviso posto dallo scrittore all’indirizzo del lettore: nessuno sfugge alla propria storia. Per il resto, ciascuno rimane libero attore in proprio delle pagine di una narrazione personale, tracciata nel “libro” della vita di ognuno di noi.
Data recensione: 01/10/2010
Testata Giornalistica: Il Ponte
Autore: Elena Gurrieri