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Dico subito che non sono d’accordo con Stefano Mazzacurati quando scrive, nell’introduzione, che il suo libro è “una specie di romanzo” e che “certamente non si tratta di una raccolta di racconti”; né con la postfazione di Ernestina Pellegrini quando asse

Dico subito che non sono d’accordo con Stefano Mazzacurati quando scrive, nell’introduzione, che il suo libro è “una specie di romanzo” e che “certamente non si tratta di una raccolta di racconti”; né con la postfazione di Ernestina Pellegrini quando asserisce che “non è un romanzo” e “nemmeno una specie di romanzo, ma non è neppure una raccolta di racconti”, e dissento con lei anche quando dice che il volume “parla soprattutto di ciò che non dice” mentre queste pagine dicono proprio tutto quello che intendono dire e lo dicono con grande lucidità intellettuale e chiarezza. Mazzacurati non si nasconde affatto, anzi… Ma facciamo un passo indietro. In generale, l’impressione che si ricava dalla lettura di questo libro è di attraversare una narrazione pulsante, colma di pathos – un pathos intriso di malinconia e intessuto fortemente del senso della “perdita” (Albert Camus ha scritto che la nostalgia è il segno dell’umano) –, dove quindi la “memoria” è protagonista, sostanza stessa del vissuto e del vivere (Pasternak ha detto che la vita, in fondo, è l’insieme dei nostri ricordi); e la scrittura, testimone e memoriale di questi mondi, se da una parte ci dice ovviamente che esistono differenze sostanziali tra vita e letteratura, è comunque produttrice di letteratura (ricordate la famosa risposta di Borges a un intervistatore? Cos’è la vita? Gli chiedono; un libro, risponde). Mazzacurati infatti scrive con gioia, ritiene chiaramente la scrittura vetta della dignità umana, riscatto dalla sofferenza, consolazione dei tradimenti che esistenza e natura ci riservano. E infatti questo libro ci fa intuire un uomo ferito e turbato dall’esistere ma non sconfitto, che della letteratura ha un alto concetto morale frequentandola con la forza e l’orgoglio di un intellettuale maturo e smagato ma anche con l’umiltà di chi sa che la vita – individuale e collettiva – è in fondo inafferrabile nei suoi misteri e nelle sue contraddizioni ma è anche il grande “romanzo” nelle cui pagine si svolge la storia dell’uomo. Allora, cos’è per me questo libro? È uno ampio spaccato del romanzo della vita (reale e segreta) di Stefano Mazzacurati articolato attraverso i mille “capitoli” – inventati, autobiografici, creativi e culturali – che la raccontano. Ciascun tassello – o capitolo, o racconto del libro – ha una sua chiave eticoesistenziale di lettura in cui consiste anche il relativo “messaggio”. Così quello intitolato “Una breve attesa” allude alla difficoltà dell’incontro profondo tra gli esseri ma anche all’esigenza dell’attesa e della fede in una “grande promessa”; “Racconto di novembre” dice che soltanto l’amore, forse, può consolarci ma anche la triste solitudine dell’intellettuale; “Il cuore corre” dice come una morte può, dovrebbe sconvolgere la nostra esistenza perché la muta e ne segna il destino anche perché l’“assenza” di chi non è più ingigantisce l’isolamento dei sopravvissuti; “La mia Guzzi” parla di una moto vagheggiata come una donna segreta sempre amata e mai incontrata; “Del rapporto tra la febbre e lo zucchero filato” è l’“oggetto irraggiungibile” che nella fantasia dello scrittore prende il posto di una “Euridice non guardata” conservando così l’intensità e la “purezza del mito, la amorosa impalpabilità del sogno”; “Il violino” dice quanto sia tagliente la lama della memoria e la tragica irrecuperabilità del “perduto”; anche “Lungo i gennai” catalizza l’amarezza di ciò che non è più e forse non è stato mai abbastanza; e il racconto che dà il titolo al libro, “Anche se tengo per il toro”, narrando la fine di un torero, confessa la profonda pietà per l’uomo che muore per un’illusione ma la cui morte è anche riscatto dalla stessa vanità della morte; “Martina” è colmo di tenerezza e commozione per “il cucciolo che dorme in ogni donna nel letto grande”; in “Dire, fare, baciare, lettere, testamento” troviamo attore principale, ancora una volta, il tempo, che si porta via gl’incontri e i momenti migliori. Mazzacurati ha il pregio di dare quasi una vita propria, un’“anima”, a oggetti e fenomeni anche minimi che fanno parte del quotidiano vissuto delle nostre varie età. Qualche esempio? Si legga “Avere le cinquecento lire per il carrello del supermercato” in cui il carrello che prendiamo quando andiamo al supermercato assume il valore simbolico di un vero e proprio ciclo vitale mentre la moneta che usiamo per liberarlo e che recupereremo al termine dei nostri acquisti è, scrive Mazzacurati, “il tramite di un viaggio occulto, la segreta sicurezza di un ritorno”; si leggano, ancora, “La minestrina dell’asilo e i suoi discendenti”, “Holter”(dialogo-monologo con lo strumento che deve controllare lo stato del suo cuore e che diventa un “personaggio” che, come un’“anima in pena”, lo scruta dentro scrupolosamente ma non è atto a cogliere “i piccoli movimenti del profondo” perché non è “adatto a capire che il cuore segna solchi che non si possono dire, scrivere, registrare”), “La caduta del burro di cacao” (che richiama l’attenzione, giocando, sull’importanza che, noi ignari, hanno certi beni d’uso comune), “Il volo del Fagiolino” (che narra quanta influenza hanno avuto gli spettacoli di burattini nella sua tenera età, “lari” della sua infanzia, ed anche quanto l’esperienza e la “cultura dell’infanzia” nutrano la mente dell’adulto); ci sono poi le pagine di “Barrette” (il potere deduttivo, sulla nostra mente, di una frase o di un atteggiamento che possono addirittura ridarci interesse per la vita); e c’è “Vov” (“simbolo maschile”, “bevanda miracolosa” che “introduce nella dimensione fallica” ma soprattutto indica il potere e il ruolo materno nella identificazione sessuale del figlio); c’è il curioso racconto intitolato “L’affondamento dello zucchero nella tazzina di caffè” in cui i cristalli dello zucchero sono indicati come protagonisti sacrificati sull’altare dei degustatori della tazzina (“L’affondamento dello zucchero nella tazzina del caffè – leggiamo – è una delle poche occasioni per contemplare dolcemente l’amplesso tragico tra la morte e la vita”); proustiano il racconto “Molto oltre la liquirizia” dove poche pennellate fanno intuire nostalgie e rimpianti. Molte le pagine, dense di malinconia e a volte di tristezza, di memorie delle figure familiari più importanti. Tra queste, oltre alla madre, alle zie, al nonno, spicca quella del padre, che lo guarda, in diverse situazioni, da fotografie tombali: dal suo sguardo, dalla sua posa, Stefano Mazzacurati evoca numerosi ricordi, immagina pensieri e realtà antichi di cui non è stato diretto testimone, scrive parole piene di uno struggente affetto filiale. Le foto sono, per Mazzacurati, vere e proprie “finestre” su un mondo che non c’è più ma che ha lasciato orme ed echi impalpabili ma presenti, e richiamano al misterioso rapporto tra il tempo umano e quello dell’assenza. La scrittura di Mazzacurati è delicata e raffinata, con frequentissimi momenti di poesia vera e propria. Tanto per fare qualche esempio leggiamo, a pag. 78: “Sul frantoio della sera, si spremevano, oltre la finestra dell’attico, le luci lente del crepuscolo bolognese, incandescente ormai soltanto sulla collina di San Luca”; e, a pag. 186: “Stracci di cielo correvano verso il confine dei tetti tra i palazzi. Angeli di pastori maremmani offrivano luce al corsetto rosso del mezzogiorno, le nuvole correvano verso ovest, e lui correva senza sapere perché correva forse verso il prossimo racconto e correva dietro di lui, tagliata dalla lama di un sorriso antico e magro, un po’ triste un po’ scherzosa, la musica di un flauto andino”. Scrittura, inoltre, che testimonia continuamente essere, Mazzacurati, uomo di vaste e ben assimilate letture, sia letterarie che filosofiche, sia classiche che moderne e contemporanee. L’autore preferito, come è noto, è Leopardi, sempre presente nella sua vita. Scrive, in “Studiare di sabato pomeriggio”: “Di fianco a me, due o tre metri più in alto della mia scrivania, come in tutte le case che ho abitato, c’è sempre Giacomo. Ogni tanto ci guardiamo, ci parliamo, in un certo senso. In quel senso per cui un amico non fa i conti con l’anagrafe o con lo spazio mondano. Ma lui, Giacomo, dice meglio di tutti che il tempo fugge, questo si sa, ma che il bello è ciò che fugge”. E leopardianamente aggiunge, in chiusura: “Studiare il sabato pomeriggio, rito segreto della nostra adolescenza, è vincere il tempo della fuga. Scegliere di vivere ancora un poco l’attesa, prima che la festa cominci. Riproporre, controvento, la speranza”. E cos’è l’adolescenza? In cosa è diversa da tutte le altre età dell’uomo? L’adolescenza – scrive Mazzacurati – è una “felice infelicità” e – aggiunge – “in quel periodo certe cose accadono per la prima volta, non ci sarà più un’altra circostanza identica”. Scrittura, inoltre, sentita come rappresentazione e storicizzazione di sé e del mondo. Intanto una premessa e cioè che – leggiamo in “L’Assaggiatrice” – “si scrive anche senza scrivere, pur di avere qualcosa da scrivere” anche in considerazione del fatto che “molti sono quelli che riempiono carta senza scrivere nulla”. Questo breve scritto è un racconto onirico, kafkiano e forse anche un po’ manniano, che allude al difficile rapporto tra creatività e fruibilità della scrittura, tra scrittore e lettore-giudice-cannibale, e sembra porre la domanda antica: per chi scriviamo, per gli altri o per noi stessi? Il tema echeggia anche nel testo seguente, “Cugine”, dove il lettore è intravisto quasi come un “cannibale” e però vi si afferma anche che le parole sono solo una piccola parte dell’Essere che lo scrittore cerca di dire (citiamo: “E gli sembrò di capire che ci sono più geroglifici nascosti tra le parole che si pensano chiare di quanto chiara sia la luce che brilla sulla lama incandescente del mistero”; e ancora: “Ma bastava lasciarle sulla bocca, schiusa nel sogno delle parole, il senso che oltre le righe che nere si scrivono, restano impresse sulla pagina altre righe bianche, ben più importanti e profonde, come la traccia del bacio lieve che le lasciò, poco prima dell’alba”); inoltre la scrittura è vista come un processo di conoscenza (citiamo ancora: “L’importante è sapersi piccola tessera dell’immenso mosaico di tutti, progetto non rivelato di un architetto indicibile”). Del resto – ci riferiamo al testo “Racconto orsacchiotto” – albergano in uno scrittore un “narratore interno” ed uno “esterno” e “Tra le righe nere gli spazi bianchi. Dicono l’indicibile”. E tuttavia questa scrittura che mai raggiunge la pienezza di ciò che vorrebbe o dovrebbe dire, resta quasi l’unica “soluzione” esistenziale per lo scrittore. In “La mappa di Conrad”: “C’è qualcosa là fuori?” chiese il capitano. “Niente” rispose l’altro “fino al prossimo racconto”. Anche perchè, forse, “lo scrivere per stare al mondo trasforma ancora il veleno in dolcezza” e tesse una “letteratura dei giorni” (abbiamo citato da “Assenzio. Sulla vera identità di Charles Cros”). Scrittura dunque come identificazione di un destino e compendio di una storia. Leggiamo in “Salpare”: “Dietro l’incertezza che, al di là delle sicurezze di turno di uomini e donne di ogni tempo storico e in ogni spazio geografico, muoveva sempre di più la sua sempre più evidente impossibilità di giudicare, solo la certezza dello scriversi, di segnare il mondo con il passaggio del proprio inchiostro. Obbligo di salvare la memoria, di gesti, di pensieri, abitudini riusciti in qualche modo onesti e dignitosi, e scriverla ancora, e lasciare altri segni, lucido e sereno come la statuetta di uno scriba egiziano che tanti anni prima aveva visto in una sala del Louvre. Seduto a gambe incrociate, in una mano reggeva il rotolo di un papiro, la memoria del mondo. Nell’altra mano, lo stilo di canna per scriverla. Ma soprattutto lo aveva colpito lo sguardo della statua, diretto in alto. Come se quel suo scrivere fosse il gesto più importante per procedere, ma anche per migliorarsi”. Del resto, nello stesso testo, poco dopo l’autore dice che “ognuno è la carta, la penna, l’inchiostro del suo piccolo ma potente romanzo”. Cioè della rappresentazione del proprio destino, appunto. Dalle citazioni che ho fatto credo arrivi l’eco di un’altra chiave fondamentale della letteratura di Stefano Mazzacurati: lo sguardo pieno di pietas con cui guarda dentro di sé e dentro gli altri. Infatti – egli stesso dice – il sentimento più umano più prezioso e caro è la compassione.
Data recensione: 01/12/2009
Testata Giornalistica: Rivista di Studi Italiani
Autore: Renzo Ricchi