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Da Firenze a Berlino andata e ritorno. O meglio, per tanti capolavori che hanno preso la strada della capitale germanica, il viaggio è stato decisamente di sola andata; questione diversa per la creazione di quel gusto, dall’Europa agli Stati Uniti, a cui

Così l’antiquariato trasferì e vendette capolavori in Germania
Da Firenze a Berlino andata e ritorno. O meglio, per tanti capolavori che hanno preso la strada della capitale germanica, il viaggio è stato decisamente di sola andata; questione diversa per la creazione di quel gusto, dall’Europa agli Stati Uniti, a cui la premiata ditta Bardini – Bode dette il proprio fondamentale impulso.
Stefano Bardini e Wilhelm Bode sono i protagonisti del volume curato da Valerie Niemeyer Chini, Stefano Bardini e Wilhelm Bode, mercanti e caonnaisseur fra Ottocento e Novecento, recentemente edito da Polistampa. Frutto del lavoro certosino dell’autrice, che ha trovato e analizzato 458 lettere. Essenzialmente dal fronte tedesco, divenuto accessibile dopo la caduta del Muro di Berlino; la seconda puntata, col fiorentino archivio Bardini, deve ancora arrivare. «E non piacerà a molti musei», riflette la Niemeyer.
Il libro esamina la corrispondenza fra il celebre antiquario fiorentino e il direttore dei musei di Berlino, quasi mezzo secolo, dal 1875 al 1920, a scoperchiare un mondo di relazioni, lecite o meno lecite, negli anni in cui si codificano i grandi musei internazionali. Spesso a spese del patrimonio artistico del neo-nato Stato italiano. Approfittando della fase di assestamento legislativo, per usare un eufemismo, a cui si assommano la secolarizzazione di chiese ed enti religiosi e l’abolizione del fide-commesso che vincolava le grandi famiglie a non disperdere i propri patrimoni. Un vuoto legislativo che proseguirà fino al 1902. «Una vera e propria diaspora» riflette la Niemeyer. Che vide feroci battaglie legali, come quella che oppose Bardini ad Adolfo Venturi a seguito della vendita, nel 1887, del cosiddetto «Busto Barberini», quel «Ritratto di una principessa di Urbino», ascrivibile alla cerchia di Desiderio da Settignano, che approdò a Berlino dalla romana collezione Barberini, al riparo di un prestanome, tale Paolo Kramer. Come dire, colui che si era venduto al mercato, Bardini, e chi aveva degli ideali, Venturi, che mirava a difendere l’immenso patrimonio della giovane nazione.
Pensare che Bardini era stato garibaldino, e prima ancora aveva tentato la carriera di pittore, trasferitosi diciottenne dalla nativa Pieve Santo Stefano a Firenze, per studiare all’Accademia di belle arti. Ma il suo talento si sarebbe altrimenti affermato, divenendo il più importante antiquario europeo, raffinato, elegante, misantropo e autoritario. «Aveva l’aria distinta e l’aspetto di volpe rapace», ricorda nelle sue memorie un altro celebre antiquario, di una generazione successiva, Luigi Bellini. Lesto nel saper fiutare l’onda del momento, lo rammenta Baccio Maria Bacci, lo riporta Antonella Nesi, curatrice del Museo Bardini, nel suo scritto introduttivo al volume: «Era l’epoca d’oro, verso il 1870, per un antiquario intelligente; e Bardini lo era».
La fortuna di Bardini, il «principe degli antiquari» e quella di Bode, il «Bismarck dei musei», appaiono intrecciate. «Sono due persone che si incontrano nel momento giusto – riflette la Niemeyer – . In epoca guglielmina la grande borghesia tedesca si andava affermando e si identificava col Rinascimento italiano. Bode, che nasce avvocato, ma che sarà il discepolo spirituale di Burckhardt (curerà tutte le riedizioni del Cicerone), brucia le tappe verso la direzione dei Regi musei di Berlino. Spirito pragmatico, con Bardini si intende al volo. Il primo contatto epistolare che ho rinvenuto risale al 1875, si sta trattando la vendita di un ritratto muliebre all’epoca attribuito al Botticelli». Fin da subito ci sono di mezzo prestanomi, non solo, la Niemeyer pubblica pure una scocciata missiva di Bardini a Bode in cui si rimprovera l’ingenuità del console tedesco che, di testa sua, aveva richiesto il permesso di esportazione per l’opera, di fatto bloccandola (ma alal fine non impedendola).
L’anno 1879, con il vero e proprio esodo del nucleo della collezione Strozzi, si rivelerà cruciale per il decollo delle carriere dei due. Arrivano a Berlino un bellissimo Bronzino, il ritratto della piccola Clarissa Strozzi di Tiziano, quello di Giuliano de’ Medici di Botticelli, meravigliosi busti, del Laurana, di Benedetto da Maiano, di Desiderio da Settignano. Seguiranno, tanto per far capire di cosa stiamo parlando, scene dalle predelle e dai pilastri del Polittico di Santa Maria del Carmine a Pisa di Masaccio, degli eredi Capponi, e ancora Donatello, Luca e Andrea della Robbia, oltre a una quantità di suppellettili, fino ad allora mai valorizzate (in questo c’è tutta la sensibilità del Bardini).
Tanto che l’allora ministro della cultura propose all’imperatore Guglielmo II di nominare Bardini cavaliere prussiano. La cosa non ebbe seguito anche, pare, per l’opposizione dello Stato italiano. Magari, se avessero saputo cosa raccontò un ottantenne Bardini a Baccio Maria Bacci, colpito da una libreria del ‘400 che Bode gli aveva mostrato a Berlino (visto che in quel secolo ancora non usavano, sarebbe stato un esemplare unico), forse i tedeschi ci avrebbero ripensato: «Era un pezzo che Bode mi chiedeva una libreria del ‘400 – così riporta Bacci le parole di Bardini – e io dicevo sempre che non si trovavano. Insistette tanto che gliela feci».
Data recensione: 15/12/2009
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Valeria Ronzani