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«Pescia è molto bella, le stradette, i palazzi di sapore cittadino e paesano assieme a una certa dignità e la misura di tutto»(20 settembre 1981).«il tutto: la piazza, le figure, a parte i vestiti, mi ricordano il Canaletto. La gente sta seduta sui porton

«Pescia è molto bella, le stradette, i palazzi di sapore cittadino e paesano assieme a una certa dignità e la misura di tutto»(20 settembre 1981).«il tutto: la piazza, le figure, a parte i vestiti, mi ricordano il Canaletto. La gente sta seduta sui portoni o con le sedie sui marciapiedi. Una porta dà il benvenuto, all’ingresso di questa città» (2 luglio 1955).
Sigfrido Bartolini aveva sempre amato Pescia, come testimoniano questi due passi del diario che tenne dai venticinque anni agli ultimi giorni di vita. Amò della cittadina toscana la «piazza grande nata dall’allargarsi di una strada», con al termine una chiesetta «calce e pietra serena, una lontana parente del grande messer Brunellesco»; ne apprezzò i dintorni,con «i paesi appollaiati sulle vette, paesaggi stupendi», e le grandi cartiere «edifici enormi pieni di finestre e si vedono gli essiccatoi». Ne amò, naturalmente, Collodi, che è una sua frazione , e che frequentò assiduamente come realizzatore di una straordinaria edizione del Pinocchio.
Ma a sua volta Pescia ha dimostrato di ri-amare Sigfrido Bartolini dedicandogli, a poco più di due anni dalla scomparsa e prima ancora della nativa Pistoia, non solo una straordinaria antologica nel Palazzo del Podestà (Sigfrido Bartolini la forma del Tempo, catalogo Polistampa 21 novembre-6 dicembre 2009), ma una giornata di studi nella sala consiliare del Palazzo Comunale, svoltasi sabato scorso in coincidenza con la presentazione della mostra. Convegno e antologica sono stati realizzati, col patrocinio del Comune e degli altri enti locali, dall’Associazione “Amici di Pescia”, presieduta e animata da da Giovanni Gentile, in collaborazione con Luigi Salvagnini. Contemporaneamente la Fondazione Nazionale Carlo Collodi espone opere della mostra “Dal legno di Geppetto ai legno di Sigfrido Bartolini” nello storico Parco tematico dedicato a Pinocchio. Omaggio ulteriore al rapporto fra l’artista e la città, la cena conclusiva della giornata di studi si è svolta proprio in una delle grandi cartiere, nel frattempo divenute raffinati alberghi, che avevano attirato l’attenzione nel lontano 1955 e cui avrebbe dedicato qualche anno dopo il dipinto, un “olio su faesite” del 1964, che illustra la copertina del catalogo e il manifesto del convegno.
Non è facile stabilire se Bartolini avrebbe apprezzato questo genere di omaggio. Vedere questi «edifici enormi pieni di finestre» fonte privilegiata d’ispirazione per le sue opere, trasformati in accoglienti strutture alberghiere forse non dev’essere stato motivo di gioia per un uomo che aveva vissuto con troppa sofferenza la deruralizzazione della società italiana («dipingo angli residui di una civiltà condannata», annotava nel 1986) per accogliere con soddisfazione l’ulteriore processo di terziarizzazione. Ma, al termine della densa giornata di studi (e di ricordi e approfondimenti) che si è svolta sabato scorso, e anche dopo la lettura del catalogo, è forse ancor più difficile comprendere che cosa avesse intimamente sentito negli ultimi anni questo grande artista che nella sua intensa vita artistica e intellettuale è stato a lungo oggetto di facili semplificazioni.
Nato a Pistoia nel 1932 da un verniciatore e “filettatore” di carrozze, doplomatosi all’Istituto d’Arte di Pistoia , dove avrebbe insegnato, dopo avere per vivere lavorato in una piccola ditta di artigiani decoratori, incisore, pittore ma anche scrittore, poeta e giornalista Bartolini per i ragazzi della generazione degli anni Cinquanta, che lo conobbero nel corso degli incontri romani della Fondazione Gioacchino Volpe, ma anche per qualche suo “fratello minore” come Dario Vermi e Carlo Sburlati, altri partecipanti al convegno, ha rappresentato ancor prima che un artista una bandiera. É stato l’ “ultimo sofficiano”, il giovane che l’Uomo del Poggio conobbe diciassettenne, guidò nei primi passi di pittore e scrittore correggendone il tratto e persino la sintassi, e che a sua volta rimase sino all’ultimo fedele al suo magistero artistico e politico; è stato il pittore che si è visto presentare da Aniceto del Massa e da Vintila Horia, oltre che dallo stesso Ardengo Soffici, il discepolo e e il sodale di un Barna Occhini, di un Enrico Sacchetti, di un Ernest Jünger, l’uomo che, intervistato da che scrive per il Settimanale ― il periodico allora diretto da Massimo Tosti con una redazione composta da nomi come Giano Accame e Alfredo Cattabianai, Enzo Iacopino e Antonio Tajani ― e nel giugno del 1981, indicava in Julius Evola il suo autore di riferimento e, richiesto di spiegare la latitanza nei suoi dipinti della figura umana, la spiegava con il suo disprezzo per il numero e la massa, con la sua scarsa simpatia per il « rumoroso mio prossimo». È stasto collaboratore prima della fiorentina rivista Totalità, poi della Torre, di Intervento, del Conciliatore e del Borghese, per cui pubblicò una seri di inchieste sulle truffe in campo della grafica. É stato ― come ha ricordato nel convegno di sabato e nel catalogo il critico d’arte Siliano Simoncini ― «un alfiere dell’integrità nazionale, di valori fondativi ereditari del passato. É stato insomma il tenace nemico delle imposture della modernità, che pagava con l’ostracismo della critica ufficiale la sua fedeltà all’arte figurativa negli anni del trionfo “concettuale”. Anche questo elemento generazionale è emerso dagli interventi di alcuni partecipanti al convegno, dallo scrittore e inviato del Giornale Stenio Solinas al sottoscritto sino all’assessore capitolino alla Cultura Umberto Coppi, che ha ricordato di averlo conosciuto come «firma importante del piccolo pantheon di riviste cui noi giovani militanti cercavamo di abbeverarci». E Sigfrido Bartolini è stato senz’altro anche e soprattutto questo: l’uomo della rigorosa fedeltà al magistero sofficiano, l’artista fedele a un numero ristretto di soggetti,tutti rigorosamente figurativi, dalle case senza finestre, o con finestre rigorosamente chiuse, ai capanni sul mare; lo xilografo che nella sua edizione del capolavoro di Collodi, seconda solo a quella dell’immortale Chiostri, tracciò lo straordinario repertorio di una defunta civiltà contadina; «il polemista graffiante», secondo la definizione di Gentile, che ancora negli anni Novanta, sulle colonne del Giornale e di Libero, e poi nel volume La grande impostura, del 2002, non avrebbe preso di mira i suoi tradizionali bersagli.
Dal convegno e dal catalogo è emerso però anche che un Sigfrido Bartolini diverso, più complesso e, in un certo qual modo, più autonomo, come emancipato dalle figure dei grandi maestri ― Rosai e Carrà, oltre allo stesso Soffici ― che l’avevano accompagnato nei suoi passi, ma ma che a lungo andare avrebbero rischiato di soffocarlo nei suoi sviluppi. «Adesso Bartolini è Bartolini, al di fuori di paragoni che potrebbero risultare limitanti», ha sostenuto al termine del convegno la storia dell’attrice Beatrice Buscaroli, curatrice della mostra e anche del catalogo, nel suo intervento degno di stare al pari della splendida prefazione che suo padre Piero, nel lontano 1981, scrisse del catalogo della mostra di Bartolini presso la galleria Torelli di Pistoia, scorgendo, con rara finezza, nelle «tacche scalpellate a grandi morsi» delle sue xilografie «imprevedibili omaggi al lontanissimo Viani». E Marino Biondi, docente nell’ateneo fiorentino e presidente della Fondazione Renato Serra, ha colto nel percorso intellettuale dell’artista, insieme a un’indubbia crescita della qualità artistica, un sottile distacco da certi aspetti del magistero sofficiano, nella critica al “neo-neoclassicismo” dell’Elegia dell’Ambra. Ma, senza togliere nulla a nessuno dei partecipanti al convegno, la vera scoperta dell’incontro pesciatino è l’esistenza di un diario inedito di Sigfrido Bartolini,: migliaia e migliaia di pagine da cui la vedova del maestro, signora Tina, e la figlia maggiore, la docente universitaria e giornalista Simonetta, la quale da bambina fu per l’artista la modella della fatina dei capelli turchini, hanno selezionato uno straordinario giornale di bordo dal titolo Disperata felicità, in attesa di un editore e in minima parte anticipato nel catalogo, sotto forma di brevi passaggi apposti quasi come didascalia ai dipinti riprodotti. Uno di essi, risalente al 2 febbraio 1978, basterebbe da solo a giustificarne e a spiegarne l’opera: «l’uomo è una totalità mirabile non quando sogna una vita e un mondo migliore, ma quando della vita del mondo, quali sono, sa fare un sogno».
Data recensione: 24/11/2009
Testata Giornalistica: Secolo d’Italia
Autore: Enrico Nistri