chiudi

Mani che si stringono, occhi che si toccano, fiati che si mischiano. Origine contro origine. Mentre intorno tutto sembra caduto, scrostato, contemporaneo al disfacimento. Nella sua prima raccolta di racconti, Di domenica

Mani che si stringono, occhi che si toccano, fiati che si mischiano. Origine contro origine. Mentre intorno tutto sembra caduto, scrostato, contemporaneo al disfacimento. Nella sua prima raccolta di racconti, Di domenica si può anche morire (pp. 152, Polistampa, euro 10,00), Domenico Guarino segue il senso dei corpi che si contaminano, le onde senza salsedine di donne e uomini che fremono alla notte e poi si sfaldano in un mattino di separazione e routine. Una scrittura di pelle che ti fa respirare i suoni che fanno i muscoli quando si avvicinano e insieme lottano. Morsi. Incontri che avvengono senza una spiegazione. Quando gli altri non guardano. Quando è buio. Dentro o fuori. Per mettere in pausa un mondo fatto di parole già dette e comunque sempre ripetute, per allontanarsi da quel mondo e mettere uno spazio, un silenzio che non mente. Davanti e dietro gli attimi scambiati dai corpi, ci sono storie che raccontano parole di successo e di sconfitta, ma il giro è lo stesso, imposto a ritroso dalla fine all’inizio. Di nuovo un toccare e cedere, sfiorare e credere tra le proprie gambe. Meglio allora un distacco incosciente, definitivo, se quello che hai non lo puoi tenere, se quello che hai è tuo nel momento stesso in cui lo perdi. Una volta che si è vissuto, si può anche morire. E su un letto di metallo, dove non circola sangue, il morso è un abbraccio acuto che non dà possesso, ma crea solo altro vuoto. Altri racconti. La rivoluzione comincia dalla periferia di una vita passata a combattere da una vita per un diritto vitale, naturale, inalienabile, eppure fragile come un sogno fatto di acqua e sapone. Umanità in piedi contro una porta cieca che chiude un Potere sordo e incomprensibile. Umanità sospinta in cammino da un uomo armato di parole maturate al fragore di una vita passata a donare la vita alla frontiera. Un uomo “completamente vestito di bianco”, come l’alto della montagna da cui è sceso per annullare la distanza che ci ha fatto perdere la misura della coscienza. “In quelle parole era la forza del vigore, l’allegria di chi ride, il valore di chi si batte. Il rispetto di chi non calpesta. La pioggia di chi ha sete”. Adesso che è sceso e non può più tornare, ora che sono pochi gli arcobaleni nati da una pioggia di stoffa alle finestre dei condomini e agli alberi delle piazze, siamo tutti più orfani di vento. Ma decisi a resistere nella lunga stagione di lotta ancora tutta da camminare. E se non mi sono spiegato: a me questo libro è piaciuto.
Data recensione: 18/06/2009
Testata Giornalistica: UniversitArea
Autore: Matteo Brighenti