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Si entrava un via S. Egidio 21 e seguendo un percorso guidati attraverso il complesso delle Oblate è possibile scoprire – ingresso libero, venerdì sabato e domenica dalle 11 alle 14 e dalle 15 alle 18 fino al 28 giugno –

Si entrava un via S. Egidio 21 e seguendo un percorso guidati attraverso il complesso delle Oblate è possibile scoprire – ingresso libero, venerdì sabato e domenica dalle 11 alle 14 e dalle 15 alle 18 fino al 28 giugno – quello che rimane dal favoloso tesoro dell’ospedale di Santa Maria Nuova: pochi, ma eccellenti esemplari (illustrati nel bel catalogo di Polistampa intitolato appunto “Il tesoro liturgico dell’ospedale di Santa Maria Nuova”) con una sconvolgente sorpresa. Tutto ciò cominciò nel 1288 con una donazione di Folco Portinari alle Oblate, congregazione dedita alla cura prima di tutto delle anime e poi del corpo. Poco dopo l’acquisizione di un intero convento con annessa chiesa di Sant’Egidio, ancora donazioni e legati testamentari: le opere buone portano sempre ottimi frutti. Così piano piano, un’offerta oggi, un ex-voto domani, l’Ospedale di Santa Maria Nuova cominciò ad entrare nella sua fase di ascesa in parallelo e con l’ausilio del nascente granducato di Toscana sotto laguida dei Medici. Prima però aveva anche subito la prima (di una lunghissima serie) confisca dei beni. Era il 1528, Firenze era assediata, l’Ospedale possedeva moltissimi beni preziosi quindi fu tra gli enti depredati. Dei beni del primo periodo non abbiamo notizie poiché il primo inventario risale solo al 1588, quando l’Ospedale cominciò a beneficiare dei favori dei granduchi. Molte volte i donatori commissionavano opere, altre volte erano le monache che lo facevano in ricordo e omaggio dei loro benefattori. L’intento era per lo più quello religioso, non c’era una speculazione economica, ma -come accade sempre in queste occasioni- anche quest’ultima non tardò ad arrivare. Lo rende evidente l’inventario del 1707 caratterizzato da intenti puramente laici, dove accanto alla descrizione del manufatto è menzionato anche il valore puramente venale dell’oggetto, ossia la stima economica del bene. Il valore sacro (o la superstizione) continuò a prevalere sulla mera speculazione, almeno fino al passaggio dell’illuminismo e delle soppressioni napoleoniche. Verso la  metà dell’Ottocento infatti l’ospedale di Santa Maria Nuova cominciò a prendere la sia attuale fisionomia e a perdere il suo primitivo scopo: dalla cura dell’anima si passò quasi ed esclusivamente a quella del corpo, così come dalla devozione delle reliquie e delle sacre immagini si passò a lla capitalizzazione dei beni posseduti mandare avanti la “baracca”. La salute prima di tutto e quindi la cessione e la vendita di tutto ciò che non era prettamente legato ai fini ospedalieri. Tutto a fin di bene, per i progresso della scienza e quindi la salute del malato, sta di fatto che beneficiarono sopratutto gli “avvoltoi” che invece di adocchiare le carcasse dell’adiacente cimitero cominciarono a tener d’occhio i beni “superflui”dell’Ospedale, offrendosi  liberamente di acquistare quelle cianfrusaglie di poco conto che occupavano spazio inutile all’attività del prezioso ente. Peggio ancora tra il 1881 e il 1894  quando Santa Maria Nuova venne interamente ristrutturata. A quella data, secondo i documenti, risale la dispersione più grande del “tesoro” attraverso la vendita delle opere di maggior pregio e il trasferimenti delle opere di maggior pregio e il trasferimenti delle superstiti nei nuovi centri di ricovero: l’ospedale Meyer e quello di Careggi. Una foto degli anni Quaranta del secolo scorso, presente in mostra, testimonia l’allestimento della cappella nella villa medicea di Careggi, destinata del 1936 alle Oblate, forzatamente trasferite in quel luogo. Nel 1938 infatti il complesso di Santa Maria Nuova fu definitivamente ceduto al Comune,  mentre da tempo la chiesa di Sant’Egidio era passata ai frati cappuccini, che ricevettero in quell’occasione anche parte delle opere d’arte delle Oblate come arredo. Molti quadri e sculture entrarono a far parte anche del patrimonio statale, come ha ben illustrato la mostra del 2008 presso le Reali Poste degli Uffizi, ma qualcosa rimase anche alle monache, come illustra questa esposizione. Oltre ai numerosi reliquari ed ex-voto, sorprende una replica (divisa in due quadretti) della preziosa immagine della Santissima Annunziata, testimonianza di una devozione mai sopita verso un quadro simbolo della fede dei fiorentini. Come accade oggi con i santini, all’epoca era la replica (non sempre di buona qualità) dell’immagine sacra (anche se parziale come in questo caso) a costituire di per se una garanzia di protezione. Accanto alcuni esemplari di crocifissi lignei, tra i quali uno di dimensioni monumentali (182x172) realizzato da Francesco da Sangallo. Questa mostra lo rende finalmente visibile al vasto pubblico dopo accurato restauro, un intervento delicato e lungo che ha svelato un vero capolavoro, pressoché intatto sotto uno strato di sporco che ne offuscava perfino i tratti somatici. Oltre alla policromia e allo stato conservativo, sorprende il carattere drammatico del corpo di Cristo. Ogni parte anatomica sembra essere attraversata da una drammatica vitalità, un estremo sussulto prima della morte. I piedi, deformati dalla ferita inferta dal chiodo, sembrano di carne e ossa, così come il resto del corpo, colto nella tensione forzata della posizione. Solo questo inedito capolavoro riportato all’originario e drammatico splendore merita una visita.
Data recensione: 11/06/2009
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Graziella Cirri