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‘Amaritudine’: termine inusuale e coinvolgente di origine latina, già usato dal Boccaccio‘, che oggi ci appare come formato da una doppia radice, l’una tratta dal campo semantico dell’amarezza, l’altra dal verbo amare –

‘Amaritudine’: termine inusuale e coinvolgente di origine latina, già usato dal Boccaccio‘, che oggi ci appare come formato da una doppia radice, l’una tratta dal campo semantico dell’amarezza, l’altra dal verbo amare – quasi che amore non potesse che essere affine a qualcosa di amaro – mentre nella parte suffissale sembra volerci suggerire vocaboli allogeni, quali ‘abitudine’ o ‘solitudine’, che pure si collegano come per un’inevitabile cuginanza alle vicende che stringono il personaggio Gualtiero in una morsa di rassegnata abitudine all’amarezza e nello stesso tempo nella ricerca ostinata di una ragione e di una forma di amore che lo liberi dalla solitudine in cui lo costringono le circostanze esterne. Un titolo dunque ideale per il romanzo di Massimo Griffo, edito l’anno scorso da Polistampa, subito selezionato e poi proclamato vincitore dell’importante ‘Premio Roma 2008’, città dove, quasi a ulteriore e significativa conferma, è ambientata per la massima parte la vicenda narrata. Una vicenda che presenta una folta serie di figure che fanno apparire Gualtiero uno sprovveduto, un ingenuo, un sognatore sempre deluso. In realtà non è lui il vero protagonista di “Amaritudine” ma, come suggerisce la quarta di copertina, il testo ha una dimensione collettiva, quasi corale, entro cui la storia di Gualtiero – con felice intuizione definito da Cosimo Ceccuti “vittima della propria coscienza” antinomica a quella disinvolta degli altri personaggi – funge da elemento catalizzante ed emblematico. La trama, che prende le mosse dagli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale (1944) per arrivare, attraverso una calibrata scansione di capitoli, fino agli anni di Tangentopoli (1993), ha un ampio respiro e si inserisce, a mio avviso, nel filone del romanzo storico e sociale, con precedenti illustri, da Manzoni a De Roberto, da Moravia alla Morante, da Tomasi di Lampedusa a Sciascia, distinguendosi per lo stile narrativo chiaro e al tempo stesso articolato, scorrevole e lucido, senza una parola di troppo sia nelle descrizioni che nelle sequenze narrative o introspettive, abolendo quasi il discorso diretto per riportare in modo incisivo e immediato ogni azione o pensiero dei personaggi, nonché ogni vicenda storica italiana e straniera: da buon siciliano di origine, ma vissuto a lungo a Roma, a Milano e da molti anni a Firenze, Griffo ricorre a volte a una sorta di indiretto libero verghiano. L’Italia del secondo dopoguerra, del boom economico, della contestazione, degli anni di piombo, degli scandali e di “Mani pulite”, fa da cornice e sfondo non oleografico alla storia, senz’altro amara, di questo adolescente orfano, ingannato, bloccato nelle sue aspirazioni artistiche, quasi fagocitato da un mondo simile ad circo di personaggi della politica, dell’industria e della finanza equiparati prima ad ‘acrobati’, poi ‘giocolieri’ e infine ‘pagliacci’, che si alternano sul palcoscenico delle pagine sguazzando senza scrupoli per portare avanti i loro interessi economici o di potere, seguendo l’onda e fiutando il vento. In questo ambiente operano Luciano, zio acquistato di Gualtiero, e l’ambiguo amico Osvaldo, sempre pronti a mutare direzione a seconda delle circostanze dopo averle sfruttate al massimo per arricchirsi o per altri fini ancora meno leciti. Un rapporto difficile, conflittuale, lega Gualtiero alla fede comunista, all’aspirazione alla giustizia, all’onestà. Nel romanzo spiccano varie figure femminili, a volte antitetiche, come la madre Anna, vedova spenta, incapace di sfruttare al meglio le occasioni e troppo timorosa nelle avversità, e sua sorella Mariuccia, zia di Gualtiero, che prima appare in un ruolo di segnorina e poi, divenuta ricca moglie di Luciano, si rivela spregiudicata donna di mondo, abile negli affari. A loro si aggiungono nel corso del romanzo altre esponenti di un universo muliebre disincantato, da Veronica, attricetta pronta a tutto pur di fare carriera, a Claudia, che concede ben poco ai sentimenti fino a rifiutare la propria maternità lasciando Gualtiero ragazzo-padre, inadeguato a riempire vuoti affettivi suoi e altrui. E infine Rosa, che segna il punto più intenso della speranza e della delusione di Gualtiero. Ma sono molti altri i personaggi che afferrano l’attenzione del lettore in un continuo intrecciarsi di fatti privati e pubblici, spesso con nomi e cognomi tratti dalla realtà nello sfondo di eventi sociali e di costume che ci fanno ripercorrere cinquant’anni di storia italiana, la cosiddetta prima repubblica, come in un film in bianco e nero dove si affacciano anche stati esteri, connessioni e collusioni, contraddizioni e conflitti armati, piste rosse e nere. In questo caos il povero Gualtiero si perde, rimanendone invischiato e vittima, mantenendo però una ‘sua’ fedeltà alle sue illusorie convinzioni e speranze politiche e sociali, pur interrogandosi a fondo, ma finendo per dire ‘meglio ingenuo che mascalzone’: una sorta di Zeno sveviano, meno autoironico, ma altrettanto ineptus, forse ‘sano’ in un mondo di ‘malati’ e che cerca a fatica di farsi ‘coscienza’ di fronte a ciò che non approva e in cui non si integra. Una delle caratteristiche più convincenti del romanzo è che l’autore non concede nulla al facile moralismo, al commento critico personale: lascia parlare i fatti, i personaggi, rilanciando il giudizio al lettore, pago di averlo condotto, attraverso una storia individuale amara ma coerente, in una macrostoria forse ancora più contorta e difficile da sciogliere. “Amaritudine” è un romanzo da consigliare non solo a chi quegli anni li ha vissuti, ognuno con il suo rovello o piccolo bagaglio di esperienze agrodolci, ma soprattutto alle nuove generazioni, che da quei padri hanno ereditato ancora più incertezze e fragilità e necessitano di conoscere più a fondo le vicende e i capitoli chiaroscuri della storia del nostro Paese e del Novecento.
Data recensione: 11/06/2009
Testata Giornalistica: il Portolano
Autore: Patrizia Fazzi