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Enrico Berlinguer è morto a Padova, dopo un malore che lo ha colpito durante il comizio per le elezioni europee del 7 giugno, l’11 dello stesso mese, a causa di un irreversibile “ictus”. Proveniva da una famiglia della

Enrico Berlinguer è morto a Padova, dopo un malore che lo ha colpito durante il comizio per le elezioni europee del 7 giugno, l’11 dello stesso mese, a causa di un irreversibile “ictus”. Proveniva da una famiglia della borghesia progressista di Sassari. Il padre Mario (1891-1969) era stato deputato amendoliano nel 1924, dirigente del Partito d’Azione e poi deputato socialista. Iscrittosi al Pci nel 1943, Enrico Berlinguer fu arrestato, nel gennaio 1944, per i moti contro il carovita e rimase in carcere tre mesi. Trasferitosi con il padre a Roma nel settembre 1944, nel gennaio 1946 entrò nel comitato centrale del Pci e, nel 1947, divenne segretario del Figc. Dalla ricostituzione, nel 1949, al 1956 fu segretario della Federazione giovanile comunista e prese parte alla direzione del Pci.Dopo una breve permanenza in Sardegna, Enrico Berlinguer entrò nella segreteria nazionale del Pci - segretario Palmiro Togliatti, “il Migliore” -, nel 1960 divenne responsabile dell’organizzazione e nel 1962 capo dell’ufficio di segreteria. Dopo l’XI congresso del 1966, fu nominato segretario regionale del Lazio. Deputato dal 1968, in novembre fece parte della delegazione del Pci che espresse a Mosca il dissenso per l’invasione della Cecoslovacchia. Vice segretario del Pci dal febbraio 1969, sostituì Luigi Longo, malato gravemente, alla segreteria del Pci al XIII congresso nazionale nel marzo 1972. È da qui che voglio occuparmi degli “anni di Berlinguer” e della sua influenza nella vita politica italiana ed europea, secondo il mio modo di giudizio e di valutazione, che non potrà essere che di parte (socialista), anche se cercherò, nell’occasione, di tenermi su di un piano di serena obiettività storico-politica, come merita la figura di Enrico Berlinguer.Mi pare che, a vedere al di là delle increspature e degli ondeggiamenti, i risultati di importanza storica conseguiti da Enrico Berlinguer, segretario del Pci, siano chiaramente misurabili nel confronto fra il punto di partenza iniziale e il punto di arrivo finale. E, fra questi risultati, fa spicco il fatto che egli prese in mano un partito ancora profondamente legato a valori di tipo “orientale” e lo lasciò avendo compiuto il passo decisivo, che ha dato ai comunisti italiani una autonomia del tutto nuova rispetto all’Unione Sovietica e una potenzialità di rapporti senza precedenti con i partiti socialisti e socialdemocratici europei occidentali. In questo senso, Berlinguer è stato l’interprete di uno dei momenti di maggiore rilevanza nella storia del comunismo italiano.Nel considerare il modo in cui Berlinguer interpretò i problemi aperti nelle relazioni fra il Pci e l’Urss, da un lato, e il mondo occidentale, dall’altro, si devono mettere in rilievo - a mio avviso - due caratteristiche. La prima attiene alla sfera che possiamo dire teorica; la seconda a quella della leadership politica pratica. Berlinguer non fu certo un teorico di particolare statura. Niente di paragonabile non solo ad Antonio Gramsci, ma neppure a Palmiro Togliatti. Mi sembra ovvio. Ma fu un leader capace di fermezza, decisione e assunzione di responsabilità. Le difficoltà che Berlinguer si trovò ad affrontare furono quanto mai complesse, e di natura diversa da quelle con cui, prima di lui, dovettero misurarsi sia Togliatti, dopo il ’56, sia Longo, nel periodo della sua segreteria. Costoro, e specie Togliatti nel periodo della “destalinizzazione”, ebbero questioni complesse di inquadramento teorico e politico, in relazione agli sviluppi interni e internazionali; ma poterono pur sempre muoversi in un quadro che si prestava a un processo di riduzione nell’alveo di una sostanziale continuità ideologica. Per contro, Berlinguer dovette rispondere a due situazioni inedite, le quali non consentivano più schermature continuistiche di vecchio tipo: la crisi sempre maggiore della cultura politica centrata sul leninismo (comunque aggiornato e rivisitato) e dell’internazionalismo comunista, basato sull’idea che fosse possibile mantenere in piedi una comunità di Stati e di partiti comunisti nel mondo, animati dal riconoscimento del valore privilegiato dell’esperienza sovietica e da un legame di fratellanza (per quanto non più irrigidita in moduli organizzativi formalizzati). Berlinguer fu costretto - uso questo termine non a caso, poiché intendo sottolineare che egli agì più nelle vesti di un trascinato dagli imperativi della realtà che di un innovatore - a offrire risposte nuove a problemi ormai maturi, ma maturati in uno stato di crescente disordine. In relazione a ciò, egli fu in senso pieno l’interprete di una crisi profonda. Ne uscì, qualificandosi come il leader del Pci entrato nella fase eurocomunista e come l’uomo che pronunciò la sentenza - se così vogliamo chiamarla - secondo cui la forza propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre era ormai da considerarsi esaurita. Schematizzando all’estremo, Berlinguer emerge quale interprete di uno dei tre maggiori momenti nell’evoluzione storica del Pci - da Gramsci in poi -, il cui comune denominatore è stato la ricerca dei modi di un più efficace radicamento dei comunisti italiani in una società di tipo occidentale. Il primo momento è stato quello in cui Gramsci - respingendo una concezione stretta della dittatura del proletariato - diede corpo alla riflessione dei Quaderni, sul rapporto fra dittatura ed egemonia. Il secondo momento è quello che portò Togliatti, fra il 1944 e il 1948, a superare, con la teorizzazione del partito nuovo, la concezione elitario-settaria del partito stesso. Il terzo è quello, appunto, del quale Berlinguer è stato l’interprete, allorché - attraverso l’ancoramento del Pci ai valori della democrazia politica (la svolta eurocomunista della metà degli anni Settanta) e il nuovo corso nei rapporti con l’Urss (culminata nello strappo del 1981) - ha chiuso un intero periodo nella storia del proprio partito e ne ha aperto un altro. Berlinguer pervenne, dunque, a segnare una tappa decisiva. Ma i modi in cui lo fece furono tutt’altro che lineari. Essi vennero marcati sia dalle sue qualità personali, sia dalla natura e dal peso dei condizionamenti esterni, e italiani e internazionali. E di questo non vi è motivo di meraviglia, poiché nessun leader può sfuggire al contesto in cui opera e alle tradizioni a cui è legato. Se, a differenza non soltanto di Gramsci ma anche di Togliatti e a somiglianza di Longo, non aveva spiccate doti di teorico, Berlinguer dovette nondimeno fare anche il teorico, in ottemperanza al costume dei partiti comunisti, per il quale il segretario generale è il portavoce ufficiale dell’ideologia e colui che è chiamato, soprattutto nei periodi di svolta, a definire in termini concettuali le nuove frontiere, entro le quali è destinata a muoversi nel futuro la prassi politica. E dovette, Berlinguer, recitare tale ruolo proprio in un periodo storico nel quale si impose un orientamento generale, il carattere strategico del suo partito.Pur educato, in senso stretto, alla scuola intellettuale di Togliatti, Enrico Berlinguer - sembra a chi scrive - ricavò però da Longo una lezione di stile nel modo di esercitare la leadership politica, nutrita della necessaria decisione a scoprire le carte nei momenti cruciali. Togliatti, tanto in politica interna quanto in politica internazionale era stato tutto teso ad assorbire i mutamenti entro un’idea di ininterrotta continuità. Era stato maestro della costruzione di nuove sintesi, sulla base di processi selettivi volti ad assicurare il permanere dell’originale ispirazione del leninismo e dell’internazionalismo. Berlinguer fu il leader comunista italiano a cui toccò di vivere la crisi di questa impostazione; tanto è che alla sua morte il Pci era un partito che, seppure senza quella critica esplicita e frontale a cui lo pressavano varie forze esterne e in primo luogo il Psi del nuovo corso craxiano - sia pure legittimamente e democraticamente -, aveva proclamato in modo sostanziale l’esaurimento sia del leninismo, come visione del processo di trasformazione sociale sia dell’internazionalismo di matrice terzinternazionalista.Berlinguer guidò il Pci verso nuove prospettive, vivendo e consumando la contraddizione fra ciò a cui lo spingeva l’eredità togliattiana - attestata dalla convinzione che il leninismo mantenesse una valenza positiva, seppure bisognoso di aggiornamento e sul progetto di rifondazione si, ma anche di mantenimento della comunità internazionale comunista - e le pressioni oggettive provenienti, da un lato, dalla realtà socio-politica dell’Occidente e, dall’altro, dai fattori che minavano, in maniera strutturale, l’internazionalismo comunista. Fu così che Berlinguer partì dalla richiesta che l’Italia uscisse dalla Nato, dalla rivendicazione della persistente superiorità generale dei sistemi sociali e politici dell’Est e in particolare dell’Urss, dalla riaffermazione della crisi strutturale dei sistemi sociali e politici dell’Occidente e approdò all’accettazione della Nato, al riconoscimento del valore permanente delle istituzioni democratiche di matrice liberale, all’affermazione che la politica sovietica costituiva un impedimento organico al rinnovamento democratico dei Paesi socialisti e all’azione autonoma dei partiti comunisti sul piano internazionale. La caratteristica personale con cui Enrico Berlinguer condusse il suo partito a compiere questa vasta manovra di riorientamento complessivo non fu quella di un adeguato chiarimento teorico, poiché egli non percorse il cammino mettendo a nudo, in termini di metodo e di risultati, le implicazioni di una simile operazione. Si attestò, dunque, su formule intermedie, come la politica di potenza, per esorcizzare lo spettro del neoimperialismo sovietico; come la terza via, per esorcizzare lo spettro del riformismo socialdemocratico; come l’esaurimento dell’impulso proveniente dall’Ottobre, per esorcizzare una aperta indagine sui meccanismi istituzionali della politica sovietica di soffocamento delle istanze di libertà all’interno e all’esterno (e, in quest’ultima sfera, anzitutto in Polonia). Il che mi pare caratterizzi la leadership di Berlinguer, dal punto di vista politico-ideologico, come appartenente a una fase di trapasso verso un termine, allora, non ancora raggiunto, sebbene fosse già chiaramente percepibile. Ma, pur con questi limiti, dettati da tutta un’eredità storica e da indubbie difficoltà interne e internazionali, rimane il fatto che, venuto al dunque, anche se sotto la morsa di avvenimenti che imponevano scelte non più dilazionabili (e si pensi solo al dramma polacco del 1981), Berlinguer finì per attestarsi su posizioni che hanno aperto vie di uscita da contraddizioni divenute impietose e hanno perciò reso possibili al suo partito, con la caduta del Muro e la fine del comunismo, quei nuovi sviluppi che hanno portato il Pci a cambiare nome in quello di Pds, poi in quello di Ds e, infine - dopo alterne esperienze di governo - in Partito democratico (senza la specificazione di sinistra).Prima di concludere questa commemorazione (di parte) dello statista di Sassari, ci sono due cose che vorrei mettere in rilievo. Ma sono entrambe sfavorevoli, viste dalla mia parte di socialista. La prima consiste nella scomunica personale di Berlinguer che - dopo il Midas di Roma nell’estate del ’76, che portò Bettino Craxi alla testa del Psi - di lì a poco e senza preoccuparsi di gettare nel vuoto assoluto la nuova parola d’ordine del Pci (alternativa democratica), assunta dopo la fine del compromesso storico con la Dc, definì Craxi un pericolo per la democrazia. Domanda, domanda di allora e di adesso: se il Psi, dunque, era nientemeno che un pericolo, con chi mai i comunisti, dopo aver abbandonato le intese con il partito cattolico, pensavano mai di creare un’alternativa? Questa ostilità di fondo - come ben osserva nel suo saggio “L’esplosione. Storia della disgregazione del Psi” (Edizioni Polistampa, Firenze 2004) Lelio Lagorio -, propria di un’opposizione moralistica, spinse il Pci di Berlinguer, sempre di più, verso forme di vera e propria fobia antisocialista, e si aprì a sinistra una ferita lacerante, che non si è più risanata. Nei drammatici anni Novanta, quella ferita verrà ulteriormente approfondita e scaverà rancori inestinguibili, sospingendo irreversibilmente la stragrande maggioranza dei socialisti veri a un implacabile contrasto con gli eredi del Pci.La seconda, di carattere squisitamente più teorico-ideologico e politico in senso più generale, riguarda il rapporto democrazia-unità esistente nel Pci anche ai tempi di Enrico Berlinguer, e da lui non risolto o superato: il problema della democrazia interna, cioè quello del centralismo democratico. È vero - come afferma Gavino Angius, intervenendo con un suo lungo scritto commemorativo nel primo anniversario della morte del segretario del Pci -, che l’aspetto della democrazia interna è stato considerato e valutato, in modo particolare, da Berlinguer che, però, ribadiva che il centralismo democratico non è un connotato ideologico del partito comunista, pur sottolineando che l’aspetto della democrazia interna vada comunque sviluppato e meglio codificato in norme statutarie. “In primo piano - rileva Angius - sembra emergere non già il carattere centralistico del metodo del confronto politico interno e della direzione politica, quanto piuttosto la sua concezione unitaria, intesa affatto in senso umanistico, ma come partecipazione attiva, personale e diretta al dibattito e rispetto dell’indirizzo politico assunto dalla maggioranza, fatto salvo, come è ovvio, il diritto di conoscere la propria opinione e di riproporre le proprie tesi nelle forme, nelle sedi e nei momenti che lo Statuto tutela”. “Se questo approccio alla questione della democrazia interna nel pensiero e nell’opera di Berlinguer non va oltre - prosegue Gavino Angius -, ciò è dovuto al fatto che, effettivamente, al di là non è possibile andare. In realtà, questo aspetto decisivo della vita del partito si presenta in Berlinguer come non compiuto, anche se sembra avere gettato le premesse per portare ancora avanti una ipotesi di sviluppo del metodo democratico che regola la vita del Pci”. E conclude Angius: “Il rinnovamento del Pci, in tutti i suoi aspetti, non può essere mai affrontato astrattamente, ma piuttosto in relazione alle trasformazioni economiche e sociali in Italia e nel mondo, agli sviluppi della lotta politica generale; ed è in relazione a ciò che vanno definiti gli orientamenti politici e ideali e va concepito il modo di essere del partito… Il modo di essere del partito è conseguenza diretta della elaborazione teorica - cioè della concezione del socialismo - e della linea politica. Al rinnovamento di entrambi siamo continuamente sollecitati”. E, a forza di aspettare, Gavino Angius ha deciso di abbandonare gli eredi del vecchio Pci, trasformatosi - di mutazione in mutazione nominalistica -, alfine, in Partito democratico, per aderire all’area socialista e liberale.
Data recensione: 08/06/2009
Testata Giornalistica: Avanti!
Autore: Angelo Simonazzi