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Il 14 aprile 1944, a Firenze, il comunista Bruno Fanciullacci ammazza il filosofo Giovanni Gentile, alfiere della pacificazione nazionale e punto di riferimento di quegli intellettuali fascisti toscani che, come Soffici e

Il 14 aprile 1944, a Firenze, il comunista Bruno Fanciullacci ammazza il filosofo Giovanni Gentile, alfiere della pacificazione nazionale e punto di riferimento di quegli intellettuali fascisti toscani che, come Soffici e un giovanissimo Spadolini, si sono raccolti attorno alla rivista «Italia e Civiltà». Un foglio che, in una situazione cruciale, riprende per tanti versi i temi dell’educazione morale e civile degli Italiani, cari all’interventismo culturale del primo Novecento: ne è direttore Barna Occhini, genero di Giovanni Papini, che però sceglie di fare l’ispiratore “a distanza”. Morto Gentile, cui una parte dei repubblichini guardava con diffidenza, l’estremismo fascista si incattivisce, le SS infieriscono, i “gappisti” continuano a colpire gli obiettivi “emblematici”. E cioè “fasci” e “nazi”, per lo più isolati. Nei mesi che precedono la Liberazione insomma, sangue chiama sangue: e dopo?11 agosto 1944: gli Alleati entrano in città. Sono venuti a liberare o ad occupare, a seconda da che parte la si guardi. La guerra civile, comunque, divampa fiera e feroce. I “disperati” di Salò non si arrendono. Trecento giovanissimi “franchi tiratori”, non soltanto ragazzi ma anche ragazze (capelli corti, camicia nera, pantaloni militari al posto della gonna – Cfr. Luca Tadolini, I franchi tiratori di Mussolini, Ed. All’insegna del Veltro, 1998), sparano dai tetti addosso al nemico. Facendo la “resistenza” in un altro modo. Li ha voluti, pescandoli soprattutto tra la gente del popolo, il fiorentino Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano. Continueranno a combattere per tutto agosto. E Curzio Malaparte, che ora indossa la divisa alleata ma resta il solito campione di arcitalianità viscerale, con contraddizioni politiche e contraddizioni “estetiche” al seguito, immortalerà nelle pagine della Pelle, gli spavaldi adolescenti in camicia nera fucilati davanti alla chiesa di Santa Maria Novella.La guerra non è finita, la guerra civile ne ha ancora tante di scie di sangue da lasciare. Ma a Firenze c’è comunque aria di nuova Italia. E il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale – che è presieduto dallo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti – in mezzo a quelle rovine fumanti e sanguinanti ferite, partorisce «La Nazione del Popolo», il giorno stesso in cui gli Alleati arrivano in città. Il nome è tutto un programma (antifascista). Nel senso che la vecchia «La Nazione» si è compromessa, trascinando per troppo tempo il suo nome glorioso nel “fango reazionario, conservatore e fascista”, ed ora è necessario che venga fuori un giornale tutto diverso, libera voce del popolo fiorentino affrancato dalla dittatura. Un quotidiano che non sia al servizio di alcun interesse privato e nemmeno di un partito, ma esprima una “leale collaborazione tra partiti diversi”, ponendosi come “esempio della maturità politica che fa onore a Firenze e alla sua tradizione di civiltà”. Insomma contro «La Nazione» dei fascisti, che ha sputtanato le sue tradizioni liberali, viva «La Nazione del Popolo», plurale voce antifascista, strumento di lotta contro ogni oppressione, mirabile espressione di concordia discors tra democristiani, azionisti, comunisti, socialisti, liberali; quotidiano – pensante e militante – di quel Ctln che si presenta agli Alleati (peraltro non poco diffidenti, e talvolta decisamente ostili, nei confronti dell’ “Itala gente dalle molte vite”) col profilo di un potenziale organismo amministrativo, voglioso di funzionare. E magari con una qualche pretesa di autonomia. Tanto è vero che c’è chi sbandiera volentieri l’eredità del Comune medievale e non guarda con soverchia simpatia al governo di Roma. Men che meno alla sua eredità che sa tanto di retorica fascista. Ecco, ad esempio, quel che scrive Carlo Furno il 25 settembre 1944: “La speculazione clamorosa e grottesca che Mussolini e i suoi accoliti condussero a spese dell’Italia sul mito di Roma è fin troppo nota a tutti (...). Roma divenne una specie di grandioso circo equestre dove, agli ordini di un direttore munito di sproni, stivaloni e frustino, e sotto la sorveglianza di miriadi di lacché in uniforme, moltitudini ben addestrate provenienti dai quattro angoli della penisola davano in parate, sfilate, evoluzioni ginniche, salti attraverso il cerchio ed esperimenti corali, lo spettacolo continuato più avvilente che il mondo moderno abbia mai contemplato. E mentre a Montecitorio cinque o seicento miserabili buffoni, tutti vestiti per contrasto lugubremente a lutto, si radunavano periodicamente ad acclamare e a cantare, la pubblica piazza rigurgitante di folla oziosa e urlante assumeva la funzione di sede abituale delle ‘storiche’ decisioni politiche”.Che schifo! Un Cesare di basso conio, con tanto di panem, circenses e folle plaudenti, da una parte, dall’altra le aule parlamentari (“sorde e grigie”?) che vergognosamente tacciono e acconsentono.Ma è arrivato il momento di dire addio a Roma “caciarona” (e “ladrona”?). Ecco il rimedio: “Trasferire la capitale in una città piccola e modesta (non sarebbe opportuno, con tante che ne abbiamo, costruire una città nuova sol per farne la capitale: potrebbe benissimo servire a tal scopo, ad esempio, Perugia, oppure Aquila degli Abruzzi, o Urbino ecc.) vorrà dire per noi italiani liberare dalla trappola romana la vita politica e morale del Paese, decongestionare i ministeri, purificare l’ambiente burocratico e diplomatico. In una piccola città, simile a tante altre, lo Stato ritroverà, o magari troverà per la prima volta nella nostra storia, quell’ambiente di semplicità e di dignità che è indispensabile per far nascere nei cittadini la fiducia e la speranza”.La “piccola città”. Già, come, al Nord, Salò...Ci tiene, «La Nazione del Popolo» a far mostra di spirito libero e di vocazione al dibattito, forte com’è di collaboratori illustri come Barile, Bilenchi, Branca, Calamandrei, Cicogni, Cassola, Devoto, Garin, Levi, Luzi, Montale, Pieraccini, Ragghianti, Saba, Salvemini, Spini, Sturzo. Tutta gente che ha una “storia” e che più che mai ne avrà nel dopoguerra, nei ranghi della cultura e della politica antifascista. Anche se qualcuno di loro potrebbe ben figurare nelle schiere dei “redenti”, per usare un’espressione di Mirella Serri (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio, 2005). A partire da Romano Bilenchi, amico e collaboratore del superfascista – ancorché “eretico” – Berto Ricci, poeta, matematico, fondatore de «l’Universale», tenacemente fedele alla consegna, nonostante mille disincanti, e morto volontario in Africa nel ‘41.Adesso, comunque, Bilenchi è redattore capo responsabile della «Nazione del Popolo» (direttore Piero Compagno, codirettori Alberto Albertoni, Vittore Branca, Carlo Levi, Bruno Sanguinetti e Vittorio Santoli) e scrive fior di articoli per celebrare le donne che hanno combattuto nei “gap”, accanto agli uomini, seminando bombe tra fascisti e tedeschi, e affrontando con indomito coraggio persecuzioni e torture.Transitate dal fascismo all’antifascismo, le icone plebee, nazionalpopolari e comunitarie-comunarde della “fiorentinità”care a Bilenchi continuano a fare la loro bella figura: gli umori sanguigni restano intatti e il Bilenchi della “falce e martello” resta quello del “Bargello”. Un uomo per tutte le stagioni “rivoluzionarie”, che parla di democrazia e di libertà, ma va dove lo porta il cuore “fascio comunista”. Adesso tenuto al caldo dal “sol dell’avvenire”.Ma sul giornale del Ctln le voci sono tante e non è mica facile farle “comunicare”. D’accordo, l’antifascismo è un robusto collante, ma come si fa a metter d’accordo, e sul presente, e soprattutto sul futuro, liberali e stalinisti, democristiani e socialisti riformisti, marxisti “doc” e cattolici e crociani altrettanto “doc”?Il confronto è “aperto” e la buona volontà di non azzuffarsi magari c’è: però gli argomenti sono sempre “scottanti” e i punti di vista, una volta recitata insieme la preghierina antifascista di prammatica, sempre divergenti. Et pour cause, visto ciò su cui si dibatte: i Comitati di liberazione (quale il loro destino: organismi democratici o soviet?); l’atteggiamento degli Alleati nei confronti dell’Italia (Viva i liberatori, certo, ma perché non ci rispettano? Perché – Churchill in testa – continuano a far ricadere su tutti gli Italiani la responsabilità del fascismo? Perché diffidano dei partigiani? Perché non ci assegnano un vero ruolo di cobelligeranti nella lotta contro fascisti e tedeschi?); la legalità e la violenza giustiziera (c’è il comunista Carlo Levi che inneggia a Piazzale Loreto - “gli uccisori di Mussolini hanno compiuto un’opera storicamente e moralmente, e direi quasi esteticamente, perfetta” - mentre il socialista Giovanni Pieraccini, a muso duro, dice che certe violenze compiute dai partigiani – ad esempio la strage di Schio – sono roba bestiale che infanga l’antifascismo democratico); la Monarchia e la Repubblica; la costituzione presidenziale e quella parlamentare; l’unità nazionale e le autonomie regionali; l’idea di patria e quella di Europa.E ancora: l’epurazione, il voto alle donne, i rapporti tra Chiesa e Stato, la scuola e l’università, la situazione delle popolazioni giuliane e di Trieste, i codici fascisti, la futura organizzazione dell’economia (“liberale” o “sociale”? Magari “socialista”...) e delle istituzioni (“quale” democrazia?).Nelle riunioni di redazioni ci si accapiglia: Stalinè faro di libertà come Inghilterra e Stati Uniti? Ha ragione Chiang Kai-shek o Mao Tse Tung? Tito è un bravo “compagno” o un assassino? E perché i Sovietici hanno massacrato a Katyn la classe dirigente polacca?Sarà stata anche stimolante, operosa e creativa la concordia discors che regna nel giornale e a cui la Regione Toscana che ha voluto questa pubblicazione rende omaggio (a partire dal socialista Riccardo Nencini, presidente del Consiglio regionale), ma era cosa che non poteva durare. La guerra e il dopoguerra definiscono “nuovi ordini” fatti di nuove, e dure contrapposizioni. Insomma, “chi non si somiglia, non si piglia”, se non sui tempi brevi. Che qui vanno, per l’appunto, dalla liberazione di Firenze alla Repubblica e alla Costituente, visto che il giornale chiude i battenti il 3 luglio del ‘46.Cosa troviamo oggi rileggendolo? Beh, verrebbe voglia di dire la forza e la debolezza di una, cento, mille “illusioni” che per una breve stagione convissero, costantemente confliggendo. L’incapacità di fare i conti sul serio col fascismo, dunque con vent’anni di storia italiana, di storia di tutti, da ripensare e rielaborare. Certe sparate retoriche che, nel nome dell’antifascismo, rifanno il verso all’enfasi littoria. E poi ci sono anche tante “curiosità”. Ad esempio, gli articoli di un Montale che si occupa, sì, di critica teatrale e naturalmente pubblica anche qualche lirica, ma prova anche a dir la sua in politica. E tuttavia non sa come farlo, perché è un bravo borghese, liberale e fondamentalmente conservatore, ma non vuole dar noia a nessuno, meno che mai ai “compagni”, e allora finisce con l’essere ambiguo e criptico come negli Ossi di seppia. Nel senso che continua soprattutto a dirci ciò che “non” è e ciò che “non” vuole. Quando parla di cultura, poi, tende all’assoluzione e all’autoassoluzione. Dice, insomma, che di vera e propria cultura “fascista” ce n’è stata poca: ci sono stati invece intellettuali più o meno compromessi col regime, per faccende di ambizione o di mera sopravvivenza, ma in ogni caso non diamo colpa al fascismo di quel che è stato o non è stato fatto in campo culturale, la colpa è di tutti e di nessuno, e in ogni caso oggi impegnamoci nel segno di una rifondazione morale e di una “intelligenza” non asservita a interessi di partito, setta, parrocchia ecc. ecc. Bella scoperta, viva l’acqua calda e gli intellettuali che ne usano e ne abusano.
Data recensione: 01/04/2009
Testata Giornalistica: Il Borghese
Autore: Mario Bernardi Guardi