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“Miserere mei se dico Praga. Sei come una brocca, e ogni goccia è un raggio. In te s’apre e si chiude ogni mia piaga, incomincia e finisce ogni mio viaggio.” In questo bellissimo volume, curato anche dal punto

“Miserere mei se dico Praga. Sei come una brocca, e ogni goccia è un raggio. In te s’apre e si chiude ogni mia piaga, incomincia e finisce ogni mio viaggio.” In questo bellissimo volume, curato anche dal punto di vista editoriale, Francesco Jappelli ci propone, attraverso settantadue fotografie in bianco e nero di grande formato, una narrazione assolutamente inconsueta. La letteratura abbonda di passeggiate praghesi, immagini e citazioni, più o meno inclini al romanticismo pittoresco da cartolina, intrise di quella “ripelliniana” magia che lo stesso Corduas, primo allievo dello slavista siciliano, nega nell’assunto della sua introduzione: Praga non magica né tragica. È questo il soggetto, di fronte alla quale il fisico-fotografo Jappelli si pone col metodo rigoroso e scientifico di un archivista e con una tecnica magistrale costituita da una scelta meticolosa delle inquadrature, dei punti di vista e da lunghissimi tempi di posa, spesso alle prime luci del mattino, quasi a voler sorprendere la città nella sua natura più pura, la stessa di chi si libera dall’immanenza del tempo attraversando lo spazio come un viaggiatore dell’assoluto. Quello che qui emerge è un contesto urbano che a molti appare “fuori dal tempo” o “congelato”. In realtà il tempo che Jappelli riesce a cogliere è presente e vivo, quasi palpabile, ma è, appunto , il “non tempo” della trascendenza. Il racconto è scritto al presente storico: un presente che non c’è di fatto mai stato, sintesi di passato e futuro e “puro” continuo divenire. Praga che – come ha ben scritto Claudio Magris - è stata una “città bloccata dalle proprie contraddizioni, che peraltro erano la sua essenza, e che ha saputo fare di questo suo malinconico blocco un osservatorio delle contraddizioni del mondo, una stazione meteorologica dell’apocalissi” è in questi anni (1983-88) la capitale della “normalizzazione”di Husak ed anche la facies dei suoi monumenti, complice il colpevole abbandono della prassi di tutela, appare nuda nelle proprie membra, puramente “plastica”: una sorta di grado zero dell’estetica. “Come ogni incontro, pure quello con i luoghi - e con chi ci vive - è avventuroso, ricco di promesse e di rischi. Alcuni luoghi, parlano anche al viaggiatore più distratto e ignaro con l’ evidenza stessa del loro apparire e della vita che vi si svolge. Altri si affidano a un’ eloquenza indiretta, seducono solo chi li attraversa conoscendo ciò che è avvenuto fra quegli alberi o in quelle strade”. A questa eloquenza il fotografo si affida ma lo fa senza nutrire, come Ulisse, le ombre col sangue per ottenerne presagi ed è per questo che alla città vengono artificiosamente tolti, con rare eccezioni mai connotate, i suoi abitanti. Nel suo racconto senza inizio ne fine i palazzi e le strade sono “ad un tempo” i testimoni in grisaglia e gli attanti, non già gli attori della storia. Praga è la scenografia di un’opera aperta i cui attori, questi sì, sono i protagonisti delle citazioni letterarie che si giustappongono al vero testo, quello fotografico. Le parole di Hašek, Hrabal, Kafka, Kundera, Neruda, Rilke, Seifert, Urzidil, Werfel …sono carte sparse dal vento/tempo al quale l’antico in-folio dai fogli di pietra,Praga stessa, sembra restare immune, non corrispondono volutamente all’immagine: non la raccontano né la incorniciano funzionano semmai da sorta di contrappunto ora adagio, ora allegro quasi una colonna sonora decostruita, anch’essa senza inizio ne fine. In questo laboratorio la tecnica si coniuga con le figure della retorica, prima fra tutte la preterizione o paralassi. Senza artificio, in una fusione fredda, le immagini vengono quasi “ritagliate” dai contesti ma chi è stato a Praga sente quello che non vede, che sta davanti, di fianco, dietro al fotografo e pure chi non conosce la città riesce a percepire quanto evocato dalla pars pro toto dell’inquadratura. Anche per questo, e non solo per la nostalgia di chi l’ha vista in quegli anni, questi scatti rimandano ad una impressione strana e non di ovvio deja vu. Il linguaggio subliminale dei palazzi, le tracce della storia, o meglio delle storie che al loro interno si sono consumate, giungono al subconscio di chi attraversa la città senza passare dalla coscienza razionale. Questo Corduas coglie con la sensibilità del poeta definendo Praga città nevrotica, acentrica e asimmetrica…e le decorazioni delle facciate e sopra i portoni e i portali: “come incrostazioni, come applicazioni medicali, bende un poco incongruenti”. Eppure questo accade ancora oggi che hanno imbellettato Praga dandole i colori che portava da giovinetta ed assomiglia più ad una vecchia meretrice che ad una nobile ava. Non è dunque vero che la città che ritroviamo in queste foto sia scomparsa, prima di tutto perché, come abbiamo scritto in apertura, la Praga di Jappelli non c’è mai stata, ma soprattutto perché il “genius loci” continua a farsi gioco dell’immanenza, delle insegne colorate, dei centri commerciali, della paccottiglia che lusinga il turismo di massa. Il fascino “letale” di questa città resta - complice l’erotismo “latente” e muto delle nude statue sulle facciate dei suoi palazzi – nel senso di trascendenza che contagia il viaggiatore:come illusione di conquista che segue inevitabilmente l’innamoramento o metafora di una affannosa ricerca di sé, della propria anima. Ed è sempre e soltanto alla vigilia della partenza, prima di tornare al “ piccolo mondo dietro l’angolo” che ti accorgi di non averla mai posseduta veramente.
Data recensione: 01/07/2009
Testata Giornalistica: Critica d’Arte
Autore: Guido Carrai