chiudi

A quarant’anni dalla sua pubblicazione, torna in libreria “Testamento”di Antonio Pizzuto (Polistampa, 308 pagine, 23 euro) per le amorevoli cure di Antonio Pane, che da tempo dedica la sua passione di studioso a uno

A quarant’anni dalla sua pubblicazione, torna in libreria “Testamento”di Antonio Pizzuto (Polistampa, 308 pagine, 23 euro) per le amorevoli cure di Antonio Pane, che da tempo dedica la sua passione di studioso a uno degli scrittori più ardui e originali del nostro Novecento. Il testo appartiene alla fase estrema della produzione del questore palermitano. La sperimentazione letteraria dell’autore di “Ravenna”, infatti, registrava in quella fase una involuzione manieristica a dir poco ossessiva. Chiarito questo aspetto, si deve riconoscere che “Testamento”, costruito com’è sull’abolizione del personaggio, sulla rinuncia progressiva ai tempi finiti del verbo, incalzati sempre più dai gerundivi, e sulla eliminazione degli articoli e delle preposizioni, grazie alle chiose fin troppo esaustive scritte da Pane (quasi il doppio delle pagine dell’opera stessa), si rivela come uno dei testi più autobiografici di Pizzuto, una sorta di cifrato “lessico famigliare”. A illuminare le zone oscure della scrittura, a decifrare le annotazioni più ermetiche, ci ha pensato l’acribia di Antonio Pane, il suo rigore filologico: egli ha letto tutte le carte dello scrittore, i carteggi, anche quelli inediti, accumulando una quantità sterminata di informazioni biografiche e acquisendo una sorprendente competenza riguardo alle coordinate spaziali e temporali. Ne viene fuori, in tal modo, una dettagliatissima topografia pizzutiana, quasi sempre camuffata, che contempla i luoghi palermitani cari all’autore di “Paginette”, le case, le piazze, le strade, ma non solo: ci sono infatti i ricordi di infanzia, emergono le figure degli amici, dei compagni di classe. È come se fosse, “Testamento”, una sorta di autobiografia congelata, una elusiva,a volte sfiancante registrazione di fatti, impressioni, memorie nella tipica pronuncia di Pizzuto. Tutto questo restituisce al lettore di oggi una Palermo dei primi del Novecento, da un lato, oggi irriconoscibile, e dall’altro, quando lo scrittore vi torna alla fine degli anni Sessanta, una città già soggetta a una irreversibile mutazione, teatro di colpi di mano architettonici e urbanistici. Ma non c’è solo Palermo: “Testamento” si apre infatti con un omaggio a Erice, «odoranti di salvia i suoi paradisi, ingiù dallo scosceso il mare cresputo immobile, terse come stoviglie le strade spirali». Luogo della villeggiatura (lì sorgeva l’antica dimora della famiglia La Russa, quella della madre), che già si era affacciato dalle pagine di “Signorina Rosina” e di “Si riparano bambole”. Ma a Palermo spetta una centralità quasi esclusiva nelle pagine di “Testamento”, a cominciare dal paragrafo intitolato “Epicedio”, al centro del quale troviamo Benoit (Benedetto) Sommariva, «l’unico compagno di scuola e amico di infanzia che avessi» come si legge in una lettera a Gianfranco Contini. Si tratta di un’amicizia nata fra i banchi della IV B del ginnasio Meli di Palermo. L’incipit fotografa una piccola aula scolastica «avida di luce» del Regio Ginnasio che nel 1907 occupava, come scrive Pane, un’ala del Collegio San Rocco in via Maqueda, oggi sede della facoltà di Scienze Politiche. Pizzuto passa in rassegna, a modo suo s’intende, la vita stiracchiata della classe, il comportamento dei compagni in relazione alla vicinanza o meno della cattedra: «prossimiori braccia conserte, gomiti spadaccini laggiù sui banchi decumani», la «voce sonnifera» del professore. E le risate liberatorie alla Franti, per certi svaghi clandestini. Per poi chiudere alludendo agli spettacoli primonovecenteschi (melodrammi, riviste con cantanti impennacchiate e comici irresistibili) ospitati dall’Eden, dal Politeama, dall’Olympia. Nelle pagine che danno forma a “Legato”, invece, ci si imbatte in un momento del Festino in onore di Santa Rosalia, quello della Beneficiata, ossia la lotteria popolarissima di cui aveva già parlato Giuseppe Pitrè: si riconosce piazza Marina e la fontana del Garraffo, «rimpetto il gran palco della lotteria». E non c’è, come vedremo, soltanto la casa dei Quattro Canti, ma anche l’abitazione allora suburbana, presso il corso Pisani (una parallela di corso Calatafimi), in cui la famiglia di Pizzuto si trasferì a un certo momento. E nella “lassa” intitolata “Riscatto”, fa capolino la linea tranviaria elettrica che da piazza Bologni portava fino a Monreale: l’impianto, inaugurato l’11 febbraio 1900, fu dismesso nel 1946. Ma il paragrafo centrale è senza dubbio “Clausola”, composta, come informa Pane, dal 23 novembre al 19 dicembre 1967, partorita dall’ultimo viaggio di Pizzuto a Palermo, dove arrivò col volo 120 dell’Alitalia, decollato da Fiumicino di martedì 7 novembre, per ripartirne il 15 dello stesso mese. L’occasione gli venne offerta dall’invito al convegno su lingua parlata e lingua scritta organizzato dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani, al quale Pizzuto intervenne col discorso “Lessico e stile”. Ci furono almeno altri due appuntamenti in città: la presentazione del romanzo “Il colpevole” di Felice Chilanti e la kermesse avanguardistica organizzata da Vanni Scheiwiller per festeggiare l’uscita di “Nuove paginette”. Il momento clou di quel breve soggiorno fu però rappresentato dalla visita alla casa natale dei Quattro Canti. Il quadro che si staglia agli occhi di Pizzuto, nel suo itinerario di avvicinamento alla sua dimora, è a dir poco terreo, a cominciare dal loggiato di San Bartolomeo distrutto.A dominare è infatti un «mistero di abbandono e ruina» («cieca ogni imposta», «mute mura», «cortili deserti»). È l’agonia di una Palermo dannata alla consunzione e alla devastazione, come prova l’elenco delle macerie che Pizzuto compila, dalla piazzetta Santo Spirito alla sua fontana detta del cavallo marino. Imboccando poi corso Vittorio Emanuele, lo scrittore palermitano si accorge delle «innovate mostre», ossia le vetrine moderne, del traffico, degli «empori superbi» che hanno sostituito i vecchi negozi. Gli fa particolare impressione poi notare la scomparsa della “bottega dell’acquaiolo” che fungeva anche da caffetteria, poco prima dei Quattro Canti: al suo posto, il magazzino Upim. Una volta messo piede nella sua casa, lo spaesamento è totale: è cambiato tutto, solo la memoria può soccorrere lo sguardo, cancellando le offese del tempo e dell’uomo.
Data recensione: 04/04/2009
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Salvatore Ferlita