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Anche questa volta volevo fare un articolo diverso, mi ero messo a leggere con soddisfazione il libro di un filosofo inglese molto arguto, civile, comunicativo e saggio. Ma poi mi è arrivato Scrivo a te come guardandomi allo

Anche questa volta volevo fare un articolo diverso, mi ero messo a leggere con soddisfazione il libro di un filosofo inglese molto arguto, civile, comunicativo e saggio. Ma poi mi è arrivato Scrivo a te come guardandomi allo specchio, la raccolta delle lettere che Paolo Volponi scrisse a Pasolini dal 1954 al 1975 (a cura di Daniele Fioretti, Edizioni Polistampa, pp. 214, euro 18). Così dalla follia ragionevole degli inglesi, sono passato alla follia, al dolore, alla vitalità italiana di Paolo Volponi, uno scrittore oggi poco letto, per pura ignoranza, un narratore e un poeta che il Baricco non farebbe mai insegnare nelle scuole di scrittura, né prevedo che la casa editrice Adelphi accoglierebbe nel suo eletto catalogo, accanto a Manganelli, Arbasino, Sciascia, Ceronetti. Tutto era Volponi fuorché squisito, frivolo, puntiglioso, mondano, erudito, cosmopolita. Era pieno di vita e pieno di paure. Non si sentiva mai all’altezza. Sopravvalutava come un adolescente quelli sicuri di sé, quelli che si mantengono freddi, quelli che hanno studiato bene, quelli che sanno sempre come comportarsi in società. È soprattutto leggendo lui (e Giovanni Giudici) che, negli anni ’70, mi sono reso conto di essere italiano. Solo una potente, tellurica vitalità masaccesca e caravaggesca, contadina, municipale, marchigiana ha permesso a un uomo come Volponi di superare le mille paure e di diventare un importante funzionario industriale, prima alla Olivetti, più tardi perfino (per poco) alla FIAT, e poi essere per alcuni anni un parlamentare del Partito comunista. Questo libro di lettere mostra in copertina una magnifica foto di Volponi intorno ai cinquant’anni. Anche da una foto Volponi è ancora capace di trasmettere la sua vitalità. Non ho incontrato nessun altro che come lui contenesse nel suo corpo una tale energia compressa (come uno dei Prigioni michelangioleschi), una sensibilità allarmata e vigile, una sensualità vorace e pura. i suoi libri erompevano per disperazione e compensazione energetica dal sottosuolo del suo lavoro nell’industria, dal suo impegno politico, dalla sua passione per la pittura, la scultura, l’architettura, il paesaggio italiano, la produttività artigianale, il lavoro ben fatto. Volponi era un comunista anomalo, con una vena anarchica che non disprezzava ma valorizzava il lavoro, e sognava un’Italia in cui la razionalità industriale moderna si integrasse con la civiltà rinascimentale e desse ordine e senso a una società debole e corrotta dalla propria incapacità di autogoverno.
Volponi e Pasolini si conoscono nel 1954. Pasolini ha due anni di più. Fra i due si stabilisce un legame fraterno e Volponi, fratello minore, si rivolgerà sempre al suo Pier Paolo come a una guida, a un consigliere, a un maestro. Volponi non si sentì mai né un letterato né uno scrittore professionale. Definirsi “scrittore” era una cosa che lo faceva arrossire. Non fu mai capace di programmare la sua opera. Si lamentava di non avere tempo e di essere troppo preso dagli impegni di lavoro. Ma per poter scrivere aveva bisogno di non sentirsi ufficialmente scrittore, di non fare parte della nomenclatura letteraria. Chiedeva aiuto a Pasolini perché si sentiva “fuori” della Letteratura e non riusciva a capire da dove venivano e dove sarebbero andati i suoi libri, chi li avrebbe letti, chi poteva capirli.
Conobbi Volponi nel 1977, mi fu presentato da Elsa Morante. Un paio d’anni prima avevo scritto su «Quaderni piacentini» una recensione al suo romanzo Corporale, un grande libro, franante e incompiuto, un libro tuttora non capito dalla critica italiana, che neppure Pasolini capì, forse perché intanto cercava di scrivere Petrolio e si sentiva segretamente in competizione con l’amico. Si potrebbe dire che con Corporale Volponi abbia chiuso e portato il suo massimo risultato l’epoca in cui la nostra letteratura volle essere “sperimentale” . E lo sperimentalismo di Volponi (come in poesia quello di Amelia Rosselli) era uno sperimentalismo di fatto, non programmatico, non avanguardistico, non di laboratorio. Volponi non cercava il caos, cercava un ordine. Aveva un fortissimo senso della forma. Ma non riusciva a trovare un solo ordine e una sola forma. La lotta tra forma e materia in lui non si concludeva mai. La materia vivente, la fisicità naturale, biologica, animale, vegetale, corporea era la sua ispirazione e la sua . Ma la vita è sintesi riuscita e provvisoria di materia, energia e forma. Nei suoi romanzi, soprattutto in Corporale, il flusso narrativo percettivo, monologante, carico di invenzioni linguistiche e di ipotesi strutturali, tenta di chiudere la materia in una forma, ma non ci riesce. Così cambia rotta. Evade dalle sue costruzioni prima che crollino.
Letta in chiave analogica o allegorica, la narrativa di Volponi ha un solo oggetto e argomento: l’Italia fra il 1950 e il 1990, il fallimento dei nostri progetti di modernità produttiva, sociale e politica. Volponi vide da vicino i vizi e i limiti, le deformità e le impotenze della nostra classe dirigente. Non fu mai un politico, anche se fu un deputato. Una volta verso la fine degli anni 80, eravamo seduti in caffé al Pantheon. Mi aveva appena fatto leggere delle sue poesie chiedendomi “dove tagliare”. Era l’ora di pranzo, arrivarono dei gruppi di uomini con l’aria di studenti in gita scolastica o di militari in libera uscita. “Li vedi questi?” mi disse Volponi. “Sono miei colleghi, non sembrerebbe ma sono tutti parlamentari. Sembrano niente, ma devi vederli in aula quando prendono la parola, come parlano, con che voce, con che autorità. Io ogni volta che devo parlare mi batte il cuore e non mi decido mai”.
Il Parlamento lo metteva a disagio. Ma sentiva il dovere di non abbandonare. Dovunque sembrava stare stretto fisicamente: nell’industria, nella letteratura, nel Parlamento, nei partiti. Volponi era claustrofobo.
La nostra amicizia declinò, credo. Per futili motivi politici. Quando il Partito comunista decise di non chiamarsi più comunista, a me sembrò che la decisione fosse arrivata fin troppo tardi. Volponi invece si indignò, prese sul serio Rifondazione Comunista e si schierò pubblicamente a favore del suo nuovo partito. Solo per caso non ci siamo più visti e abbracciati negli ultimi anni. O solo per una telefonata. Si espresse negativamente, non ricordo perché, su Goffredo Fofi e su grazia Cherchi e mi disse che vedeva Asor Rosa e Raboni, li stimava perché si impegnavano a rimanere comunisti. Gli risposi che Fofi e Grazia avevano i loro difetti ma erano sinceri, mentre Raboni e Asor Rosa erano politicamente dei “falsi”. Quella fu l’ultima telefonata.
Mi accorgo di non aver parlato delle lettere di Volponi a Pasolini. Le ho lette per nostalgia di Volponi e perché in quelle lettere, scritte decenni prima, in tutt’altre situazioni e spesso in fretta, ho sentito l’inconfondibile voce tonante e viva di Volponi, uno dei pochi scrittori di vero valore di cui i nostri studiosi (salvo Emanuele Zinato e pochi altri) non si occupano più.
Data recensione: 21/02/2009
Testata Giornalistica: Il Foglio
Autore: Alfonso Berardinelli