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Trentina di origine, fiorentina d’adozione, traduttrice insigne e appassionata di opere di mistica speculativa, come quelle di Angelo Silesio, di Margherita Porete, di Daniel Czepko, la poetessa Giovanna Fozzer (cfr

Trentina di origine, fiorentina d’adozione, traduttrice insigne e appassionata di opere di mistica speculativa, come quelle di Angelo Silesio, di Margherita Porete, di Daniel Czepko, la poetessa Giovanna Fozzer (cfr. la nostra recensione a La forma quieta, Chegai, Firenze 2001, in «Humanitas» 59/1 [2004], pp. 220-222) ripropone con lucida sincerità le sue doti di iniziatrice al mistero che traluce in queste sue brevi pagine, facendo sobbalzare l’anima, dalle configurazioni dell’umana esistenza. Oltre al Poemetto dei bambini (pp. 11-25) che appare nel titolo della paquette , in essa si dipana il racconto evocativo Estati e inverno (pp. 27-40) e una nota finale Sul poemetto e nel racconto (pp. 41-44), quasi confessione dell’intima necessità di esprimersi così, in versi e prosa , su esperienze autobiografiche. La densa ed empatica Prefazione (pp. 7-9) reca la firma di Gennaro Mercogliano. Un’attenzione appuntata tematicamente nell’infanzia è, se non erro, piuttosto sporadica nella letteratura italiana e pertanto subito i suoi esiti corrono alla memoria comune: Carducci di Sogno d’estate e dell’epicedio sconfortato («Tu, fior della mia pianta/percossa e inaridita»); Pascoli dell’Aquilone e dei Due fanciulli, intenti al «gioco più serio d’un lavoro»... Così un intero, per quanto breve, poemetto dedicato a consigliere – e penetrare poi in una fulminea aforistica rivelazione - i segreti primigeni dell’infanzia, sorprende. Tanto più che «volutamente» come annota il prefatore «sliricato» (p.9) è il tessuto dei versi, lontano quindi da possibili, e allentanti, scivolamenti verso il bottezzismo aggraziato e tenero, da revival postmoderni di pastorelle bamboleggianti. Perché invece questa sobrietà “oggettivistica”, quasi fotografica nelle figurette e nelle scene in cui si compongono, pur, se per altro, qua e là affiorano spontaneamente colti e raffinati costrutti con aggettivi l’uno intrinsecato nell’altro (memori forse dei classici greci, o delle analoghe composizioni lessicali tedesche), risorse retoriche e talora virtuosità fonetiche tanto più subitamente efficaci, quanto più, non è : le chiuse dei singoli quadri, esplicitazioni meditative, sono anticipate infatti dai particolari accentuati nel delinearli che , in fondo, smentiscono l’accennata neutralità specularmente impartecipe: « Ai funerali di Francesca, attimo /d’incrudeltà perplessità nel viso / del bimbo in braccio al padre/ che davanti alla bara chiara della zia / gli spiega “chiusa lì”. / Padre rigoroso, estremo: il bambino / rifugge dal credere . Ma forse/ questa durezza sublime/ farà della sua / l’anima di un piccolo Lama» (Tu canti nel cuore, creatura-destino, p. 24). Un lampo di trascendenza impietosa, tra i poli di una presaga curiosità , ma vera interrogazione spirituale di un fanciullo, e dell’inesorabile estremo, la morte. Ma quali sono le corde interiori che vibrano dominanti dinanzi alle rapide visioni, in contingenze che possono sembrare banali – un percorso sull’autobus, un indugio in un supermercato, lo sciamare dei bimbi all’uscita dell’asilo...e nell’accogliere penetranti sensazioni uditive? Due toni prevalgono.
Il primo è l’avvertimento pacificante della “grazia” come charis, nel senso felicemente ambiguo di non artificiosa bellezza e di dono gratuito, immediata presenza del divino nel fanciullo, ancora non lontano dall’Origine, una condizione che genera calma, appagata fiducia. Ne è emblema la citazione del Bernanos di Tout est grace che definisce l’infanzia «sale della vita» e il ricordo del «sinite parvulos venire ad me» di Cristo nel Vangelo di Marco (10,14) – alla p. 21. Il secondo nucleo tematico è in opposizione, in certo modo, dialettica con il primo: è la reazione dell’animo materno nella cura appenata, premurosa per la fanciullezza, che la Frozzer incontra indifesa, ammalata, disarmata, a paragone con la propria, invece, che nella memoria sorride con i colori di una solare nostalgia: ecco i bambini «stanchi e assonnati/ e la loro necessità non conta», « pallidi un poco, malati, leggeri e ritti i capelli [...]vivono/osmosi d’indifferenza?» oppure « già adulti/aggressive le pieghe del naso, tragici/occhi già duri, lontani» (p. 25). E’ questo il medesimo slancio di amore soccorrevole che spinge lei, fanciulla ancora, a prendersi a carico Aldo, il bambino quarto e ultimo nato di una famiglia di contadini, « unico maschio, caduto vittima della poliomelite».E la poetessa si commuove:«Ricordo lo sguardo di mia madre, misto di benevolenza e di lieve stupore, le volte che io, decenne forse, portai Aldo (di tre anni?) a casa nostra , per fargli un bagno» (p.41). Un frammento di memoria che si aggiunge alle vivaci scene, con un sapone di rusticità quasi ancestrale, gustare nel clima di una “verità” montana alla Rigoni-Stern (nel citato Estate e inverno); la sensibilità dell’autrice vi traspare con la pietas, , verso gli animali stessi («Al primo inverno, già di gelo e di neve, apparteneva l’uccisione del maiale, tragedia sanguinosa [...]per gli stridi acuti e prolungati della bestia prima presaga e poi vittima», p.34); la percezione di un segreto dolente traluce nella delineazione della «funadra», figura ambigua, « sbarbato il volto aggrondato», «corporatura maschile avvolta nella gonna sino ai piedi» (p.32), che sapeva intrecciare, o rassettare, le funi, strisce di cuoio, usate dai boscaioli e dai contadini per stringere con vigorosi strattoni fieno o fascine : «Aveva occhi malinconici che alzava di rado». Fiducia dunque, e amore volto all’infanzia, che può “trionfare”, come quando il bambino guarda con gli occhi ridenti, troneggiando sulle spalle del padre , e tristezza di ciò soffre della sua fragilità, e sempre rivela “altro”, nelle due composizioni, come con esattezza ermeneutica osserva il Prefatore (pp.7-8).
Data recensione: 01/05/2008
Testata Giornalistica: Humanitas
Autore: Giulio Colombi