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Per mia regola evito di recensire libri, soprattutto se sono stati scritti da amici. E il motivo è ovvio: come farei a dir loro che non mi piacciono, come nella maggioranza dei casi? Ma questa volta ho deciso di farlo.

Per mia regola evito di recensire libri, soprattutto se sono stati scritti da amici. E il motivo è ovvio: come farei a dir loro che non mi piacciono, come nella maggioranza dei casi? Ma questa volta ho deciso di farlo. E lo faccio perché il libro dell’amico Stefano Mazzacurati è bello. È bello per davvero e lo consiglio, quando sarà disponibile in libreria, a tutti i nostri lettori. Questo libro, che in apparenza è una raccolta di racconti, è veramente un romanzo con la sua unità, le sue trame e i suoi personaggi. È, come scrive lo stesso autore, una specie di romanzo perché ogni brano rimanda ad un altro, ogni pagina si collega ad altre, ogni racconto agli altri. Già il titolo del libro, e non a caso dico libro e non romanzo, corrisponde al sentimento umano che, accanto a quello della libertà e della tolleranza, è per l’autore il più prezioso e caro: la compassione. Il tema è quello dei ricordi, della nostalgia, degli oggetti del nostro passato, ormai simboli vagheggiati e irraggiungibili, dei sentimenti che rimandano alla famiglia, agli amori, agli amici e a tutti quei valori che oggi sono morti. Dio è morto, ma è rimasto nella nostra memoria. Il tema della solitudine che, come una bella sconosciuta, ti sorride lungo il corso degli anni che passano veloci. Quello della bella sconosciuta, la Solitudine, è il tema di un racconto? Certamente, no. È il tema di buona parte del libro che ti accompagna non solo “lungo i gennai”, ma per tutta la vita. Stefano Mazzacurati che per tanti anni ha svolto la professione di psichiatra e di psicoterapeuta, e che per oltre sedici anni ha ricoperto la carica di primario ospedaliero, ha avuto il privilegio di osservare l’uomo che vive, che ama, che soffre. E su queste sofferenze ha sviluppato i suoi temi prediletti quali la malinconia, la psicologia del riso, la memoria storica con il suo corteo di ricordi che si allunga, si restringe, si annulla. Il personaggio che affiora nei racconti, Charles Cros, non è il frutto di una fantasia esterofila, quanto piuttosto di una combinazione del caso. Sono racconti o meglio, sono capitoli di una stessa storia, come nel “Del rapporto tra la febbre e lo zucchero filato” o in “Martina”, o ancora “Davanti a duna fotografia”, o “Piegare le Polo”, il “Vov” o anche “Filemone e Bauci, o la metamorfosi del ragù”. Sono la storia di una umanità dolente osservata con la lente di ingrandimento della psichiatria. Non mancano, tuttavia, spunti originali e scenette divertenti, cariche di pathos create dagli occhi curiosi di un bimbo solitario nella sua infanzia ovattata nella sua amata Bologna. Ciò che da sempre scrive Stefano è “la vita di ognuno come romanzo, di cui ciascuno è la carta, la penna e l’inchiostro”. La vita di ognuno così com’è, e non come appare nella sua crosta esteriore, luccicante e sfavillante. Una crosta che oggi sempre più spesso nasconde il vuoto assoluto.
Data recensione: 01/12/2008
Testata Giornalistica: Dossier Parma
Autore: ––