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Paolo Volponi concluse il più rovente dei suoi discorsi al Senato dicendo non solo che il benessere della nostra industria non coincide necessariamente con i sonni tranquilli della Confindustria ma anche che i «monatti» della

Paolo Volponi concluse il più rovente dei suoi discorsi al Senato dicendo non solo che il benessere della nostra industria non coincide necessariamente con i sonni tranquilli della Confindustria ma anche che i «monatti» della finanza avrebbero presto sconciato il sistema industriale italiano. Era il 1984, all’indomani del decreto di Bettino Craxi che tagliava la cosiddetta scala mobile: lo scrittore di Urbino che sedeva allora nei banchi del Pci, già uscito nel 1971 dalla Olivetti, a un soffio dalla nomina ad amministratore delegato, aveva lasciato la Fiat nove anni prima, al culmine di un percorso del tutto inusuale per un letterato italiano. La sua vita alimentava infatti e rispecchiava la contraddizione di un intellettuale, anzi uno dei massimi romanzieri italiani del dopoguerra, che nello stesso tempo era un manager di vertice; di un provinciale perdutamente innamorato della Città umanistica costretto a confrontarsi con la metropoli; di un uomo, infine, appassionato di antichi mestieri e delle abilità artigiane ma indotto a programmare i ritmi del ciclo produttivo neocapitalista.
Volponi non era affatto un anticapitalista romantico, perché aveva presto imparato a distinguere (ed è singolare che in tempi di Grande Crisi nessuno sembri ricordarsene) fra economia e finanza, cioè tra la produzione effettiva di ricchezza e la sua moltiplicazione fantasmatica: prima ancora di Adriano Olivetti, cui è dedicato un libro testamentario come Le mosche del capitale (Einaudi, 1989), il suo maestro e compagno di via era stato fin dalla metà degli anni cinquanta Pier Paolo Pasolini. Di questa lunga e persino complice amicizia, troncata nel ’75 dall’assassinio del poeta friulano, sono chiara testimonianza le ottantuno lettere di Scrivo a te come guardandomi allo specchio (a cura di Daniele Fioretti, Polistampa, pp- 216, € 18), il cui titolo da solo vale una dichiarazione di poetica. Conosciamo in parte le corrispettive di Pasolini (già nei due volumi delle Lettere, a cura di Nico Naldini, edite da Einaudi nel 1988), ma Volponi vi si espone in prima persona come mai aveva fatto nella scrittura narrativa peraltro segnata da una tensione linguistico-stilistica che sapeva reinventare, stravolgendoli, i tratti più riconoscibili della realtà contemporanea.
Per una decina d’anni Volponi espone al suo amico, con insistenza ossessiva, la propria ferita e dunque la sua contraddizione primaria, quella che si apre tra il sogno di Urbino e la realtà di Ivrea, fra il miraggio di una possibile democrazia del lavoro (è l’utopia di Olivetti che definisce «quasi kennediana») e la dorata servitù aziendale; gli scrive il 21 gennaio del ’59, quando è ancora un manager o appena un ex poeta lirico, ma già pensa al romanzo della alienazione industriale o della propria perdizione che sarà il magnifico esordio di Memoriale: «Intorno a me non ci sono che funzionari o rivoluzionari (borghesi), sullo sfondo c’è una bellissima campagna che mi pare tradita dalla violenza della fabbrica e che non posso nemmeno difendere perché non è la mia. Ancora sogno infantilmente Urbino». Per lungo tempo, fino ai pieni anni sessanta, è Pasolini a fare da specchio a Volponi, non ancora viceversa: costui sembra avere bisogno di un conforto, della verifica costante del suo scrivere a sprazzi, per ingorghi improvvisi, nelle pause di un lavoro che lo sta divorando. D’altra parte Pasolini è laconico, talora distante, scagliato come una nera meteorite dentro la società affluente che ne fa una star nello stesso momento in cui viene linciandolo. Spesso i due si ritrovano nella zona della pura e istintiva amicizia, scambiandosi notizie di vita quotidiana e sfiorando talvolta, con grande e reciproco pudore, il decorso della propria vita sentimentale: c’è un Volponi ancora giovanissimo che vagheggia il grande amore, e lo trova in sua moglie Giovina, ma c’è anche un Pasolini sgomento, afflitto per la fine del rapporto col suo attore elettivo, Ninetto Davoli.
È negli anni settanta, quando il carteggio è da tempo rarefatto, che Volponi e Pasolini paradossalmente si ritrovano nel momento del massimo distacco. Si tratta di una storia che Emanuele Zinato, il curatore della edizione complessiva di Volponi (Romanzi e prose, 3 voll. Einaudi, 2003), aveva prospettato e che solo l’epistolario arriva oggi a confermare. Nel ‘74 Volponi pubblica il romanzo più difficile e più suo, Corporale, dove proietta, per allegoria e a torride temperature, la storia di un manager-intellettuale: è una resa dei conti durissima, un diagramma che non lascia speranze al futuro politico-industriale del paese ed anticipa gli scenari apocalittici di Le mosche del capitale. Pasolini, alle prese col montaggio di Salò e con le pagine di Lettere luterane (appunto una grammatica di ciò che egli chiama «Dopostoria», o «Universo orrendo») legge per primo il romanzo ma dubita, dilaziona, poi pubblica una mezza stroncatura. L’ultima lettera di Volponi al grande amico, cui rimangono soltanto tre mesi di vita, la stessa in cui gli annuncia Il Sipario Ducale e l’estrema speranza nel Pci al governo, probabilmente tocca un suo nervo scoperto. Volponi è tra i pochi a sapere che esiste un enorme scartafaccio al momento intitolato Petrolio: sa che parla di un uomo diviso in due (intellettuale, industriale), sa che tratta di industria e di finanza come fossero elementi primordiali di un nuovo e terribile Stato di Natura. Infine sa, o lo sospetta, che Petrolio è la sola risposta a Corporale, l’ultimo messaggio indirizzato a lui.
Data recensione: 16/01/2009
Testata Giornalistica: La Stampa
Autore: Massimo Raffaeli