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Kolosseo è il primo romanzo di Luca Spaziani un giovane e brillante avvocato che vive da alcuni anni a Firenze. È un romanzo, stampato elegantemente da Polistampa. Ha al centro il mondo della scuola. Ma che romanzo è?

Kolosseo è il primo romanzo di Luca Spaziani un giovane e brillante avvocato che vive da alcuni anni a Firenze. È un romanzo, stampato elegantemente da Polistampa. Ha al centro il mondo della scuola. Ma che romanzo è? Che cosa mi ha colpito sin dalla prima frettolosa, rapita lettura? A prima vista sembra un romanzo all’antica: con tanto di personaggi, plot, trama, strutturazione tradizionale in capitoli con numeri romani (XXIV capitoli, per precisione) e in più una genesi e una fine che, elegantemente speculari e identici, danno un senso di circolarità narrativa a tutto l’insieme. Un romanzo letterariamente tradizionale, come non è facile trovare in giro e di gradevolissima lettura, un romanzo che tecnicamente definiremmo “di formazione”. E qui rispondo direttamente alla seconda domanda, quando mi chiedevo che cosa mi ha colpito sin dalla prima lettura di Kolosseo. Mi ha colpito proprio la capacità forte, naturale, di narrare, di saper imbastire un plot narrativo che tiene e che si sviluppa con colpi di scena, suspance, riprese, flash back, anticipazioni, finali di capitolo ad effetto. Luca Spaziani è, insomma, uno scrittore che sa narrare, che mette in primo piano, rispetto a tutto il resto l’intreccio, la logica degli incastri contenutistici, prima dei divertimenti sperimentali della forma (anche se la ricercata trasparenza stilistica, di tenuta decisamente realistica, mimetica, è frutto, credo, di un lavoro di limatura e di invenzione piuttosto esigente). E inoltre mi ha colpito, e quindi colpisce anche il lettore comune, la calibrata e sicura dosatura degli elementi tematici, il gioco sottile che si instaura fra personaggi principali e personaggi creati per fare ambiente; infine la elegante miscelazione di autobiografismo (o meglio simulazione autobiografica) e di quadro socioantropologico di una generazione di giovani italiani (quelli che nella metà degli anni Ottanta vivevano la loro adolescenza, frequentavano il liceo, si scontravano, senza più corazze ideologiche, col conformismo e la ottusità del potere di una classe dirigente sfibrata dal benessere e in aperta decadenza). Kolosseo, allora, è un romanzo che si legge bene, che è destinato soprattutto a un pubblico giovane, anche perché è un romanzo sulla giovinezza, e sulla fine della giovinezza, come lascia capire subito la epigrafe di Hermann Hesse: “Sospinta davanti a me una foglia appassiva. Girovagare, esser giovani e amare; tutto un suo tempo, tutto una fine ha”. Un romanzo sulla giovinezza e sulla fine della giovinezza, con i suoi ideali, le sue illusioni, i suoi generosi errori, le sbandate amorose e ideologiche, le speranze, i suoi slanci, la sua vitalità inesauribile, il senso di onnipotenza e di eternità che abbiamo conosciuto tutti, e a cui guardiamo, con un senso di foscoliano “calore di fiamma lontana”, un po’ con vergogna e un po’ con nostalgia. Kolosseo, è dunque, un romanzo di formazione, che parla del passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta, un romanzo di iniziazione, sul genere del giovane Torless di Musil e del Malte di Rilke (intesi naturalmente come modelli a cui Spaziani guarda e vi allude sicuramente), ma anche sul genere di alcuni racconti di Romano Bilenchi. È un romanzo di brio narrativo e di forte carica morale (c’è anche la condanna del decadentismo di una borghesia postmoderna che ricorda il declino del popolo dell’antica Roma imperiale riunita intorno alle mense di Trimalcione, che compare nei continui riferimenti al Satyricon di Petronio), un romanzo che lascia l’impressione di avere letto una autobiografia, anche perché alcuni capitoli, che riguardano il protagonista, Filippo Ricciardi, sono scritti in prima persona, in forma diretta di confessione e di memoria. E questo impasto di romanzo, di autobiografia simulata, di amplificazione letteraria che come un’eco, dipana a raggiera riferimenti a altri testi e a altri autori (a Hesse, a Frazer, a Calvino, a Petronio), quasi a suggerire al lettore di non cascare nella trappola di un romanzo-verità, di un romanzo di denuncia e di impegno storico sociale, ma di stare attento all’alto voltaggio letterario, di finzione letteraria che un’opera come questa di porta volutamente dietro come un’ombra. Insomma, non siamo davanti a un romanzo ingenuo, anche se la disinvoltura e la piacevolezza del dettato, la spacconeria di certe pieghe dello stile (sempre giovanilistico, sempre parlato, sempre informale) sembrano suggerire una immediatezza che potrebbe facilmente essere convertita in un film, in un prodotto cinematografico. Al centro Roma, una società occidentale in decadenza. Da qui il titolo Kolosseo, scritto con la K. Come oggi alle volte si scrive America, in aperta polemica politica. E vi si disegna un quadro molto preciso e pittoresco della Roma di qualche decennio fa (dell’eterna Roma), dei primari di cliniche private, di avvocati e professionisti, di abitanti nei quartieri alti della città, animati da noia, conformismo, gusto spregiudicato del potere; di mogli attempate e eleganti, di ragazzi pariolini, strafottenti e carichi di voglia di affermazione e di successo, razzisti fino al punto di uccidere un povero barbone, dandogli fuoco (e qui Spaziani rievoca un vero fatto di cronaca che fece scalpore sui giornali e alla televisione, anni fa). Ma la originalità del romanzo consiste nel mettere a specchio, in alternanza quasi sistematica nella disposizione dei capitoli, due mondi sociali, due storie e due punti di vista antagonisti. Quello del giovane Filippo Ricciardi, portavoce ribelle di quel mondo di ricchi in qualche modo decadenti, e quello del vecchio e sbertucciato, ma di grande carica morale, professor Fiaschi, docente di storia romana, che si trascina dietro come uno strascico e con dissimulato orgoglio, la propria passione intellettuale, il proprio rigore morale e perfino il proprio inevitabile, dignitosissimo fallimento sociale. E quale simbolo di tutto ciò, di questi conflitti, di questi valori fantasmatici ma potenti, c’è il mitico ramo d’oro, che sta a significare, come chiunque sa dalla lettura dell’opera di Frazer, anche il passaggio di un mondo di valori, da una generazione all’altra, il senso di un magistero, di cosa significhi essere maestri, essere portatori di un esempio di vita e di dignità morale, davanti alla quale si piegheranno anche i due giovani innamorati, Filippo e Stefania, radendosi a zero i capelli, per partecipare al funerale del vecchio professor Fiaschi. Ma prima dicevo della qualità cinematografica del romanzo, un romanzo ricco di forza figurativa, di immagini, e devo subito aggiungere che a tratti subentra, molto efficacemente, la dimensione quasi fumettistica, scorciata, ironica e caricaturale (e non è un caso che ai fumetti si faccia spesso riferimento nel testo), per dare un tono di understatement giovanilistico a tutto l’insieme, così come pure contribuisce a centrare il punto di vista del sedicenne Filippo anche il gergo colorito e sboccato degli adolescenti (con l’effetto parlato che abbiamo conosciuto in certa narrativa americana come Il giovane Holden di Salinger), e così ci sono i frammenti riusciti, forti, delle scene di sesso (si sa quanto siano difficili letterariamente sia il registro autobiografico, sia la narrativa erotica, perché nulla più di questi due generi richiede una tecnica). Sono molto belle le descrizioni paesaggistiche e d’ambiente, gli interni e gli esterni, con una topografia precisa di strade e quartieri. È riconoscibile Roma, la città dove Luca Spaziani è cresciuto, la Roma che è un simbolo eterno, ma anche un luogo politico per eccellenza, degli intrighi politici e amministrativi, ma è soprattutto un luogo letterario che ha una sua tradizione, nella quale Spaziani si colloca non so quanto volontariamente o involontariamente: la Roma di Zola del romanzo omonimo, di Palazzeschi di Roma e dei Due imperi mancati, dell’Imperio di Federico De Roberto, e di tanti romanzi parlamentari. Roma è anche lo sfondo del Pasticciaccio di Gadda. La centralità di Roma, con tutti i mutamenti di destino che a quel luogo mitico si collegano. Kolosseo, dicevo, è tante cose. Un romanzo di formazione, un testo di denuncia, una sceneggiatura cinematografica, un trattato morale anche, un libro sull’amicizia e sulla giovinezza, sul mondo della scuola, sull’amore, sul conflitto fra generazioni, fra genitori e figli, fra maestri e discepoli, un racconto verità che esprime un giudizio sulla società di oggi (e qui, forse, spunta anche la competenza giuridica dell’autore che fra le righe affronta concetti giganteschi e purtroppo vaghi come libertà e giustizia). Il ramo d’oro è, come si sa, e come si dice nel libro, un sogno di speranza e il simbolo più alto del cambiamento. Per questo il Kolosseo è contemporaneamente un simbolo della città eterna, ma anche una specie di formaggio groviera. Ma vorrei suggerire ai potenziali lettori di fare attenzione alla orchestrazione plurima dei linguaggi dei personaggi, alla polifonia di fondo del romanzo, per cui ogni personaggio ha la propria voce, il proprio inconfondibile timbro, le proprie parolacce e le proprie ossessioni. Filippo, il protagonista, resta subito simpatico ed è facile identificarsi, seguirlo nei suoi vagabondaggi, nei suoi slanci, nelle sue paure, nella goffezza dei suoi anni, e osservare il mondo attraverso i suoi occhi che guardano sempre altrove. Trovo molto bella la scena del carnevale storico, quando i ragazzi si trovano mascherati da antichi romani vicino al Colosseo, e così le pagine delle meditazioni del povero professor Fiaschi ricoverato in una clinica di lusso, dove medita le sue vendette, le sue rivincite, il riscatto di un’intera vita fatta di rinunce. Kolosseo mette in scena la fenomenologia di una generazione di giovani, situandoli in un periodo storico molto preciso, ma allude alla condizione eterna e universale, purtroppo effimera, dell’essere giovani. Parla della drammaticità di alcuni fatti: l’uccisione di un barbone, l’uso della droga, gli incidenti di motorino. Descrive, con minuta precisione icastica,le ferite reali e immaginarie, con una capacità davvero rara di illuminare le ragioni profonde che muovono i comportamenti dei propri personaggi. Spaziani è un analista acuminato e insieme pietoso. Sa essere anche cronista di un mondo colto in un momento di cruciale trapasso della storia italiana. È un romanzo di simulazione autobiografica, dicevo, e veramente penso che non sia poi molto importante che Luca Spaziani ci dica cosa di lui c’è o non c’è in Filippo, cosa appartenga alla invenzione o alla memoria. Certo, sono sicura, questo libro, per lui così importante, che lo vede nascere come scrittore, segna una specie di congedo dai fantasmi di un universo estinto e, insieme, quasi una specie di espiazione (come se qualcosa di doloroso, di spinoso, di intimo e di incoffessabile ci fosse finito dentro). Perché, fra tanti sconquassi, tanti squallori, tante delusioni esistenziali, resiste fino alla fine il senso di una apologia, l’apologia di un frammento sommerso, ma resistentissimo nella trama dei ricordi o delle fantasie, di una storia che lui ha dentro, potentissima, sia che sia vera sia che non lo sia, sia che sia stata vissuta sia che sia stata immaginata. Con questo libro Luca Spaziani apre una porta e ne chiude un’altra per sempre, come se con Kolosseo le nevi di un tempo, come si dice, si fossero sciolte per sempre. Per questo, nel libro, si sente il bisogno di ricorrere al mito, perché il mito (la storia, il paesaggio mitizzato) riescono a dominare e bruciare la materia esistenziale che ci sta addosso, ne permette una sublimazione e una conflagrazione senza scorie. Accanto alla scansione minuta, dettagliata, del quotidiano, dei suoi personaggi, dei loro destini minimi, dei particolari dei loro vestiti, della piega dei loro sorrisi, si pone il sostrato mitico (la profondità della storia, rami d’oro, iniziazioni, riti di passaggio, sangue e lotte). Il senso mitico recupera e illumina il naturalismo narrativo. Potrei continuare a mettere a fuoco alcune virtù e strategie del racconto di Spaziani, ma diventerei noiosa. Non è il caso. Fatemi dire solo una cosa e poi finire con una citazione, per farvi sentire come suona la prosa di questo romanzo. Una prosa “vagaminga”, per usare un termine coniato qui, una prosa che ti porta di qua e di là. Perché “vagamingo” è il personaggio di eterno adolescente a cui Luca ha giurato dentro di sé di tenere fede, sotto la maschera del bravo avvocato. Perché è quell’eterno adolescente che ogni tanto sale sulla mongolfiera dei sogni e della scrittura per “perdersi” (scrittura come perdizione, mi dice in una bellissima lettera personale, che mi ha mandato insieme alla prima copia di Kolosseo). È un romanzo tragico, a tratti violento, un libro vero, che fa del suo autore un pertinace, delicato testimone della desolazione, ma anche della bellezza struggente e indistruttibile della vita. C’è un brano centrale, a pagina 74, in cui è racchiuso, come in uno scrigno, il succo dell’intera storia, e dal quale si capisce che il Colosseo, rovina eterna di un mito imperiale da una parte, e una specie di formaggio groviera dall’altro, è una metafora viva dell’incanto e del disincanto del vivere.
Data recensione: 01/04/2008
Testata Giornalistica: Il Portolano
Autore: Ernestina Pellegrini