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Dove abitassero le sorelle Gorgoni («le vecchie», come le chiamava Esiodo) non è facile dire, se dalla parte della Libia o nel Regno dei morti, nel mondo felice ed oppiato degli Iperborei, dedite come suore al culto di

Dove abitassero le sorelle Gorgoni («le vecchie», come le chiamava Esiodo) non è facile dire, se dalla parte della Libia o nel Regno dei morti, nel mondo felice ed oppiato degli Iperborei, dedite come suore al culto di Atena. Oppure al confine della Notte, verso il pomato Giardino delle Esperidi: siamo pur sempre dalle parti della Mitologia. Bellissime, questo lo conferma anche l’esperto Boccaccio, e con nomi da romanzo futurista di Palazzeschi: Steno, Euriale e Medusa. Medusa, la più nota e glamour, ovviamente. Anche se prende talvolta sembianza mascolina, per terrorizzare meglio. In Dante, per esempio: «Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso; / ché se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi, / nulla sarebbe di tornar mai suso». Irreparabili, definitive: chi ti vede è perduto. Di qui non si torna indietro. A Medusa, che ha l’ulteriore particolarità d’essere anche umana e mortale, e dunque soffrire di tutti i tormenti e i ghiribizzi serpentinati, che l’antichità classica, da Luciano ai pittori manieristi, da Boecklin ai visionari simbolisti belgi le regalano come sinistri monili di sangue, gli Uffizi dedicano l’ottavo tassello dei Mai visti, l’intelligente rassegna che ci ha abituati a scoprire tante opere neglette e talvolta proprio minori. Quest’anno però la rassegna svolta, si rinnova e diventa assai più raffinata: come dimostra questa elegante parata paradossale di mostri e di sofisticherie estetiche concertate con intelligenza da Antonio Natali e Valentina Conticelli, prezioso e manipolabile catalogo Polistampa.
«Incontrarla è sciagura. Quel suo sguardo fisso ferma il sangue degli uomini e quasi in pietra li tramuta» cantava Goethe nel Faust. Incontrarla qui, invece, nel regno dei Medici, regie Poste degli Uffizi, è una vera avventura, perché attraverso monete, cammei, testi ermetici e celebrativi, armature ed erme, si ripercorre il cammino romanzesco e contraddittorio di questa somma bellezza, che però impaura. Di questo simbolo del terrore, che pietrifica al primo sguardo, ma che poi diventa paradossalmente allegoria di prudenza e ricettacolo di saggezza, nel governare (ed altrimenti perché gli Imperatori antichi se ne sarebbero fregiati ed i Medici l’avrebbero eletta a «perla» e ricettacolo anche colleziononistico?).
Tutto ruota intorno ad un bellissimo scorcio di Medusa sgozzata, con gli occhi già vitrei, attornata di serpenti viscidi ed un’atmosfera mefitica, che si condenza in quella nuvoletta di fiato guasto e velenoso, che le esce dalla bocca arsa, come una piccola mongolfiera dell’orrore (Baudelaire ci voleva, a narrarla). E’ facile, oggi, guardare quella natura pinta intorno e riconoscervi una mano nordica, fiamminga, già nutrita d’un’analoga Medusa, dipinta da Rubens e Snyders. Ma gli antichi eran caduti in errore, e sin dal Settecento pre-romantico s’era creduto di ritrovare in quello sguardo diaccio l’antica Gorgone perduta di Leonardo, che aveva fatto scrivere a Vasari: «avvelenava l’alito e faceva l’aria di fuoco».
Così soprattutto i letterati c’eran cascati: Stendhal aveva forse preso di lì le sue prime ispirazioni per la «sindrome» che porta il suo nome, il poeta romantico Shelley aveva delirato per quella tela, trasformando Leonardo, erroneamente, in un eroe già Sturm und Drang. Avendo intuito però una grande verità: che più che «l’orrore è la grazia a impietrire lo spirito del riguardante». Medusa, come vero simbolo di Belle Dame sans merci, Bella Dama senza scampo. Così bella che Poseidon se ne innamora e l’impalma nel tempio di Atena, la «Pallade irata» che s’infuria di gelosia e come una meretrice da basso napoletano l’insegue, non solo per strapparle i capelli, a borsettate, ma per metamorfosarli in orrendi serpenti. Perseo, che deve vincersi una sposa, accetta di portare in pegno la testa mozza di Medusa, ma sa quanto rischia a guardarla, ed ha l’astuzia di spiarla riflessa nello specchio d’uno scudo. Trascinandosela grondante, dietro la schiena (ecco dove nascono i coralli) sino alla Libia, come l’Angelus Novus di Benjamin e Klee, dopo aver combattuto con le grinzose sorelle di lei, le Graie, che hanno lo stesso nome di quel bordino d’Alpi che non si ricorda mai a scuola. Dal sangue del capo sgozzato salta fuori Pegaso, il cavallo alato e la mitologia continua, sino alla costellazione. Ma allora, se nessuno può guardare la Gorgone, perché i Medici la trasformano in una sorta di simbolo apotropaico? E’ già Luciano a suggerire: «la Gorgone occorre portarla su di sè, perché essa abbia questa virtù». Quale virtù? Quella di piegare il destino delle battaglie e di collaborare a ben reggere il Governo di Città. Ecco perché Lorenzo il Magnifico fa di tutto pur di possedere la magnifica Tazza Farnese, che già fu di Federico II, ecco perché Cosimo il Vecchio non può uscire senz’esser tatuato protettivamente di Meduse, dovunque. Da spauracchio a monito: perché sono gli sciocchi ad impaurirsi di troppa sapienza, e si sa, la cultura e i libri spesso fanno paura.
Data recensione: 19/12/2008
Testata Giornalistica: La Stampa
Autore: Marco Vallora