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Per poter scrivere su Cammino tra le ombre (Mondadori, 2008), libro postumo di Giovanni Cenacchi, mi è necessario fare un passo indietro ed accennare al volume I Monti Orfici di Dino Campana, alla cui

Per poter scrivere su Cammino tra le ombre (Mondadori, 2008), libro postumo di Giovanni Cenacchi, mi è necessario fare un passo indietro ed accennare al volume I Monti Orfici di Dino Campana, alla cui pubblicazione collaborai con l’allegato cd-rom Dino Campana Poeta, edito a Firenze nel 2003. Il libro contiene una grande novità nell’ambito degli studi sul poeta marradese: l’autore ripercorre il gesto campaniano del camminare nei sentieri dell’Appennino Tosco-romagnolo per meglio comprenderne l’arte, commentando, prima attraverso un saggio poi con la descrizione di dieci passeggiate, gli scritti di un autore che trova nel contatto con la natura primigenia uno degli stimoli principali per la composizione dei suoi scritti. Giovanni è fedele alle parole di Friedrich Hölderlin, poeta amato sia da Campana che da lui stesso: “L’uomo abita poeticamente su questa terra”. I Monti Orfici sono un testo originalissimo che soltanto Cenacchi poteva scrivere in quanto conoscitore dei luoghi campaniani, i suoi monti, profondo conoscitore dell’opera e della vita del poeta di Marradi e poeta e scrittore egli stesso. Giovanni come Campana identifica nella montagna “raccoglimento ed elevazione, estasi e inerzia.” Ma cosa significa per Giovanni essere poeta? Due indizi per una risposta: 1)il finale de I Monti Orfici in cui egli cita Campana: “Chiedi che è così dolce sentirsi una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha riflesso per un momento i raggi del sole.”; 2)le sue stesse parole: “Il compito dell’artista è dunque quello di salvare, mettere al sicuro il mondo nel proprio spazio interiore e in quello dell’opera, proteggere le cose dalla distruzione che lacera.” “La distruzione che lacera”. La realtà sta nel fatto che Giovanni Cenacchi non solo ha voluto con la sua opera di scrittore salvaguardare il mondo dalla “distruzione che lacera”, ma scrivere e comunicare nel pieno della “distruzione che lacera”, da quello che lui stesso un giorno in una sua lettera mi definì come “il cuore dell’orrore”: questo accade in Cammino tra le ombre. Si tratta di un libro lacerante, straziante, un cammino nel dolore, nella ribellione, nell’incessante richiesta di un’indicazione, di una via nuova, una via di uscita. E’ un cammino che Giovanni percorre coraggiosamente non sottraendosi al cuore della battaglia. Torna alla mente la frase del filosofo Hans-Georg Gadamer che Giovanni spesso citava: “… interpretare non significa scoprimento di senso ma investimento di senso, volontà di potenza, creatività.” In Cammino tra le ombre Giovanni, dal “cuore dell’orrore”, dal suo “de profundis”, investe il suo senso, la sua volontà, persino la sua creatività. Giovanni è fedele alla sua indole, alla sua innata missione: commentare con la scrittura ogni passaggio della vita, anche quell’affacciarsi ad “una finestra invisibile”, che è stato l’ultimo percorso fisico e anche non fisico, in un certo modo “metafisico”, della sua breve esistenza. Giovanni è al tempo stesso scrittore-camminatore e poeta-scalatore ma, mancando infine il conforto reale della montagna “come metodo di liberazione dal tempo, l’incubo in cui è confinata la condizione umana”, Giovanni investe la sua volontà nell’opera scritta, il suo senso, la sua domanda incessante; e Giovanni compie questo gesto in forma di diario (certo, un diario “sui generis”). Perché? Lui stesso ci fornisce risposta: “Il diario: trovare rifugio nella propria calligrafia. Quanto siamo deboli: non ho altro che parole per difendermi dalla fine.” “Rieccomi all’appuntamento con le mie parole. Mi leggo; tocco, dipanato lungo le righe, ciò che resta del mio corpo.” Le parole sono per Giovanni estensione di sé, in esse Giovanni ritrova la sua fisicità, l’appuntamento con se stesso. Quindi: perché il diario? Per ordinare e ritrovare la propria vita fatta di corpo-scrittura e mente-concetti. Addirittura queste diventano le pagine più significative fra tutte, nel momento in cui Giovanni asserisce: “leggo e rileggo queste pagine… fra tutte le altre pagine del mondo non troverò un briciolo di cibo più che in queste.” E in queste pagine si compone il suo rivolgersi continuo a Dio, il cercare risposta continua all’esistenza e alla non esistenza, alla sua epifania, al perché della sua non manifestazione. Inesausto chiede una spiegazione: “Forse stai solo cercando di farmi abituare alla morte.” In questo cammino Giovanni dà anche una definizione della sua fede che non è credere in Dio, ma è “la fiducia che ripongo nel credere a un Dio del genere”. In questo cammino c’è un mutamento dell’atto del rivolgersi a Dio: più rabbioso inizialmente, più sottile poi. Giovanni infatti scrive: “All’inizio di questo quaderno, scrivevo di Dio come di una potenza capricciosa e malvagia. Ora lo tratto come un debole, un soccombente al male bisognoso di noi, i più deboli.”, un percorso che si muove parallelamente con quello che Giovanni definisce il “progressivo indebolimento del mio io.” Spiccano nel cammino righe dolcissime come quelle in cui Cenacchi chiede al Signore di prenderlo in braccio, come Enea col padre Anchise in fuga da Troia, e portarlo con sé, condurlo dolcemente oltre la soglia del male. All’interno di questo dialogo ci sono echi lontani dei fatti del mondo, come la morte di Karol Wojtyla e l’elezione a papa di Joseph Ratzinger: “Morte del papa: piazza San Pietro gremita. Ammiro dei cattolici il mite orgoglio con cui levano gli occhi al cielo. L’umiltà e la fermezza con cui chiedono conto a Dio dell’orrore del mondo, del male.”
Data recensione: 28/10/2008
Testata Giornalistica: Transfinito
Autore: ––