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Cosa hanno a che fare, nella produzione di Michele Brancale, le liriche raffinate e spesso ermetiche di La fontana d’acciaio (Firenze, Edizioni Polistampa, 2007, pp. 69, euro 8) con la prosa scorrevole e trasparente di Soave

Cosa hanno a che fare, nella produzione di Michele Brancale, le liriche raffinate e spesso ermetiche di La fontana d’acciaio (Firenze, Edizioni Polistampa, 2007, pp. 69, euro 8) con la prosa scorrevole e trasparente  di Soave e invecchiato ( Firenze, Edizioni Polistampa, 2007, pp. 32, euro 7). La cifra comune va rintracciata nella ricerca dell’altro, che diventa interrogazione lucidamente dolorosa nelle poesie, in cui l’autore si confronta con l’imbuto della condizione umana, amputata dalla separazione da Dio, dai morti e dal passato; e che invece nel racconto diventa prassi concreta nella dimensione sociale quotidiana, alleggerita da una possibilità di incontro che redime in parte l’oscuro scacco metafisico.Brancale non è solo un poeta ricercato e uno scrittore disinvolto… Le poesie di La fontana d’acciaio possono essere prese, perciò, quasi come la scia schiumosa dell’elica con cui l’autore s’inoltra nel gran mare del mondo.Nelle liriche di Brancale l’“altro” sono innanzitutto le cose, con cui il poeta ingaggia una faticosa lotta per risolverne l’estraneità, assorbirne l’opacità, in una sorta di assedio panico e sinestetico (un francescanesimo talvolta persino dannunziano) che le trasfigura in luoghi dell’anima. Brancale tocca cioè talvolta le punte di un iperrealismo magico che penetra così a fondo nelle cose da evocarne una diversa cifra interna; e che assume anche un valore critico verso il carattere consumistico dell’esperienza individuale odierna, modellata su ritmi disumanizzanti rispetto a cui ritrovare una lentezza tendenzialmente affacciata sui tempi dell’eterno, magari evocata nello scenario meridiano del paese lucano d’origine, senza retorica integrato, nell’immaginario del poeta, all’umbratile città del presente (la sua Firenze, la Firenze di Elia dalla Costa e di Don Facibeni, di Don Milani e di Ernesto Balducci). Suggestiva è l’immagine di un paesaggio sassoso in altra era geologica sovrastato dal mare, metafora della desertificazione spirituale di una civiltà stretta nella weberiana gabbia d’acciaio, nella francofortese razionalità strumentale, da rivitalizzare in una civiltà del “dono senza interesse”. Ed emotivamente evocativa è una delle più dirette liriche dedicate alla magica presenza-assenza del padre scomparso, che diventa segno stesso di una legge perduta, di una verità declinata, di una ragione fluttuante destinata ad apparire e sparire nella metamorfosi intermittente del nostro tempo; ma segno anche della fluidità dei livelli di realtà, accessibili attraverso porte simili a quelle formate nello spazio da “astri decaduti” e di una societas hominum estesa al regno dei morti. Ma è sempre la condizione umana a prevalere: la magia è risorsa per contenerne il lato dolente, non per sovvertirne le leve, abolirne i confini: ecco che perciò la visione dei morti sarebbe insostenibile, e l’unica via è l’immersione nel sogno. Si legga la lirica in cui Brancale sembra quasi rimproverare Dio, o interrogarsi comunque sul perché non sia stata esaudita una sua preghiera sulla possibilità di rivedere in sogno il suo caro. E si legga anche quella in cui la presenza-assenza si estende ai vivi, a quegli amici del passato ormai lontani, ma sempre-presenti come luoghi dello spirito, come balsami o ferite aperte nel cuore.La scissione è il negativo e s’incarna nella solitudine urbana, avanzata inesorabilmente negli anni Ottanta - che chiudono la parabola cominciata all’epoca del primo boom, quella del genocidio culturale denunciato da Pasolini -, nel piombo dei giorni in cui si avviava la ristrutturazione dell’economia mondiale all’insegna di una nuova grande polverizzazione sociale. Ma la desocializzazione progressiva dell’ambiente umano alimenta altresì il rimpianto per i trapassati e di ciò che anche di noi continuamente trapassa e dell’irrevocabilità del tempo. La frammentazione della vita post-moderna suscita l’esigenza di tenere vivo un nesso “etico-narrativo” che leghi fra loro le diverse estasi della temporalità. Dietro uno spazio apparentemente adeguato, si cela un montante caos, che spesso fa scacco al nostro desiderio di conciliazione. Ma altre volte esso può anche piegarsi ad un nostro atto di libertà che trasformando la storia restituisca senso anche all’incongruità del ricordo.Il desiderio di ricomporre la lacerazione veritativa e recuperare la “realtà” porta l’autore a stigmatizzare il senso comune, la generale deiezione che tesse una rete di paura e indifferenza verso il diverso, verso l’escluso. L’amore di Brancale per l’umanità sofferente, per la “povertà” di spirito, per gli esseri fragili subalternizzati, trova qui momenti di vera poesia. Il mondo storico è visto attraverso la luce critica di un’utopia di pace distillata dalla memoria della catastrofe della seconda guerra mondiale. È probabilmente ancora il padre, con i suoi racconti bellici, a ispirare il rifiuto della violenza. Esso emerge anche nella penultima poesia della silloge, Ritorno a casa, che sembra rievocare un’esperienza di deportazione, con tutto il carico di nichilismo portato dalle vicende dopo le quali la storia, la poesia, l’arte, non sarebbero più state le stesse. In Soave e invecchiato, Brancale sembra affiorare dagli abissi interiori alla superficie della sua vita sociale. Il racconto è semplice ma originale, una specie di giallo quotidiano, in cui alla fine si viene a scoprire che i misteriosi versi manoscritti sulle etichette di vino “Soave”, che quotidianamente compiaono sui banconi di un supermercato, sono opera di un’anziana donna che comunicava così con un suo amore perduto e ritrovato nel lieto fine. La città, in un’atmosfera a mezzo fra il Charles Dickens della Favola di natale e il Frank Capra della Vita è Meravigliosa, è avvolta negli addobbi natalizi: c’è “chi corre sopra, chi corre sotto e nessuno pensa al Padre eterno che nasce bambino”. Il bizzarro linguaggio calabro-toscano di uno dei protagonisti (anche il Fellini de La Voce della luna anticipava, nella rappresentazione della multietnicità italica, l’ulteriore salto in quella globale) rimanda alla natura meticcia della città di oggi, crocevia di diversi destini accomunati dalla stessa condizione. È appunto nella prassi vitale, nell’amore, nell’amicizia – a cui è dedicato il testo – che le fratture irredimibili dell’uomo possono trovare, per Brancale, il loro antidoto. Suggestiva la scelta dell’ambientazione: il supermercato, spazio topico dell’odierno dilagante e divorante dominio delle merci, in cui l’autore riesce a far rifiorire un amore autunnale, pervicacemente proteso oltre la dinamica reificante, come un’edera crescente sui mattoni d’una città moderna. Le quartine sul marchio assumono quindi un significato pregnante di non violenta violazione del logo, di ritraduzione in linguaggio umano dei beni di scambio. A tematica senile è certo legata all’attività sociale dell’autore, ma assume anche un ulteriore significato sociologico, se pensiamo che questa stagione della vita tende ad essere sempre più rimossa a favore di un imperante giovanilismo, anch’esso funzionale al mercato. Oggi nessuno più è vecchio, tranne chi non può permettersi di restare giovane. Queste persone non sono più la fonte riverita di un sapere trasmesso, ma reperti d’un passato inservibile, nell’epoca dell’erosione consumistica della memoria.
E invece, per Brancale, non c’è salvezza senza ricordare noi stessi e senza ritrovare, in questo percorso anamnetico, il calore degli altri, indistinguibile dal nostro.
Data recensione: 01/09/2008
Testata Giornalistica: Perusia
Autore: Salvatore Cingari