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George Tatge, fotografo di notorietà internazionale, padre americano e madre italiana, non avrebbe certo bisogno di presentazione se il genere di arte cui si dedica – la fotografia tradizionale rigorosamente in bianco

George Tatge al Giardino Bardini, a Firenze. La pelle umana delle cose, il derma della realtà, ecco con che cosa gioca la fotografia George Tatge, fotografo di notorietà internazionale, padre americano e madre italiana, non avrebbe certo bisogno di presentazione se il genere di arte cui si dedica – la fotografia tradizionale rigorosamente in bianco e nero – non fosse, in questi ultimi anni, un po’ emarginata dalle tante elaborazioni al computer o comunque dalle interpolazioni con altre tecniche e materiali. Per le sue origini e la sua cultura – nato a Istanbul è vissuto più in Medio Oriente e in Italia, dove risiede, che negli Stati Uniti – i suoi lavori invitano ad una disamina più simile a quella che si usa fare per il disegno e la grafica che per la fotografia vera e propria. Per la grande cura che Tatge dedica alla stampa sembra affiorare, sul supporto cartaceo in cui la pellicola è riportata, quasi una specie di velatura, come se la frequentazione dell’arte italiana, e in special modo della pittura veneta, avesse condizionato dal profondo le sue scelte estetiche. In ogni foto, la più diversa, c’è una luce filtrata con grande sapienza e discrezione tesa ad omologare, nel senso di dare una cifra poetica coerente, ogni sua ripresa, anche quelle in cui i bianchi e i neri sono più spiccati. Tatge è soprattutto cultore di paesaggi e la mostra “Presenze Presences” a Villa Bardini, curata da Walter Guadagnini, prodotta dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze (catalogo Edizioni Polistampa), lo sta a dimostrare. Basti posare lo sguardo sul Cerchio d’acqua dove navigano alcuni fuscellini a forma triangolare o trapezoide che, se non fosse per quella attentissima messa a fuoco, sarebbero rimasti quasi invisibili. Con lo stesso stupore osserviamo il San Vigilio di Marebbe la cui acribia tecnica, unita alla eccezionale sensibilità poetica dell’operatore, rasenta l’incredibile. La natura è, per il nostro artista, sempre in primo piano coinvolgendolo in una contemplazione partecipe, ma pur sempre oggettiva, dei suoi fenomeni, dei suoi silenzi, delle sue armonie. Tutta la prima serie delle foto di questa rassegna, che vanno dalla seconda metà degli anni Ottanta a tutti i Novanta, di scuola che potremmo dire classica, secondo la ben nota tradizione del paesaggismo statunitense, soprattutto di Minor White e Paul Caponigro, sembra completamente assimilarsi alla cultura europea per l’osservazione pacata ed evocativa degli eventi naturali. Mentre studia le tecniche più idonee ai suoi scopi – tempi lunghi delle riprese, bianconero in tutte le sue potenzialità, grande attenzione, come dicevamo, della stampa – l’autore dà vita a una nuova forma di conoscenza dell’oggetto ripreso: i passaggi così delicati dell’obbiettivo sulle superfici sono in effetti dovuti a uno studio accuratissimo della qualità del materiale fotografato scoprendone gli aspetti più riposti. Tatge vuole egli stesso conoscere, “scovare” certe zone rimaste inosservate, certi angoli di visuale inediti La foto è il suo personale “disvelamento” della realtà che egli offre all’osservatore: perciò si ha l’impressione, ogni volta, di scoprire un mondo nuovo, anche se magari si tratta dell’erba bagnata di un campo o dell’albero sotto casa. Conoscenza, dunque, perché contributo a una nuova acquisizione del già noto ma non recepito fino in fondo. Così, ad esempio, la serie delle “Foreste Casentinesi”. Chi di noi non ha osservato una nevicata nel bosco? Ma quanti hanno visto con l’esattezza e il tempismo di Tatge come la neve si dispone sul fusto cilindrico e liscio di un abete o come ricama una frangia gelata su dei rami sottilissimi? Giochi di trasparenze apparentemente banali, sotto radure di alberi spogli sui fianchi dell’Appennino, diventano una sorta di virtuosistica incisione. Quando poi l’oggetto della ripresa è la nebbia nel momento in cui evapora o la luce stessa in contrastato biancore fra neve e acqua, siamo davvero a una rievocazione quasi mistica del creato. Senza venir meno al suo distaccato stupore per il naturale, in un secondo gruppo di foto Tatge inserisce con discrezione, quasi casualmente, la presenza dell’uomo, le tracce del suo intervento e del suo passaggio. In San Bartolommeo a Mare e in Liguria, ambedue del 2000, l’apparizione dell’uomo è appena accennata. Nel primo caso è un segno – si direbbe un tratto di George Tatge, San Bartolomeo a Mare, 2000. George Tatge, Aviano, 2001. matita – che quasi non si fa notare: protagonisti restano le superfici della terra e del mare, il loro confluire senza contrasto l’una nell’altro, mentre la torre, netta, sta a bilanciare lo spazio, come in un quadro, col fusto dell’albero e la sua chioma. Nel secondo, l’uomo inquadrato a grande distanza e dunque piccolissimo, è comunque centrato dall’obbiettivo in modo da non poter sfuggire al nostro sguardo. Di fronte al mare grigio, col lungo soprabito, con alle spalle la terra spoglia di un autunno incipiente, trasmette una nota malinconica: potrebbe essere il video per una canzone di De André, visto che di Liguria si tratta. Altre volte è la comparsa di un elemento estraneo alla natura ad attestare l’opera dell’uomo: un filo teso che taglia un panorama indifferente nella sua millenaria geologia – ancora Liguria 2000. O un segnale stradale che appare remoto e assurdo come un extraterrestre, lungo la strada umida, alberata, che sfocia in un tunnel di nebbia. Tatge ama le superfici bagnate e i loro riflessi appena accennati. Si tratta di riprese che si direbbero mattutine, rugiadose, con appena quel tanto di molle che permetta un gioco di luce. Si vedano gli inverni silenziosi dell’Italia appenninica, con la terra lavorata impregnata d’acqua ad alludere a una riposata pausa nella fatiche della campagna. Talvolta invece l’intervento dell’uomo si addensa sul terreno e arriva ad essere inestricabilmente connesso allo scenario naturale: così il Campo nebbioso da cui, se non fosse per la cortina di pioppi e cipressi sullo sfondo, sembrerebbe di poter udire il lamento del dantesco «Perché mi schiante? », «Perché mi scerpi?» (Inf. XIII, 33, 35). C’è poi un’ampia serie di foto, in prevalenza degli ultimi anni Novanta e dopo il Duemila, in cui il paesaggio-territorio diventa notevolmente antropizzato. L’occhio dell’operatore si mantiene distante, attratto dalle forme, ma certo il rapporto uomonatura non è pacificato e diventa infine denuncia degli abusi perpetrati sulla natura stessa. I luoghi e i tempi della decantazione che abbiamo visto nel primo insieme di foto sembrano ora dar luogo all’osservazione della stratificazione e della mutazione, del resto tipiche del territorio italiano. In alcuni casi il “tecnico” si fa archeologo non solo perché, come vedremo, documenta siti di archeologia industriale vera e propria, ma perché lo interessano fenomeni come quelli di Cervia, dove non è esplicitato se certi fenomeni siano opera dell’uomo o della natura, animali compresi: grotte, “buchi neri” nel terreno, acque. Talvolta c’è la poetica – molto “anni Settanta” – dell’objet (re)trouvé, installazione “casuale” col territorio che fa da fondale: si vedano i Sassi cerchiati del 2001, che ricordano vagamente gli Igloo di Mario Merz; o la straordinaria Lamiera dietro alla cui elegante piegatura si apre una scenografia da Cinemascope. Del resto le riprese che ricordano celebri film degli anni Sessanta, Antonioni in primis, sono molte: basti osservare Orto a Cascina, Calabria, Porto Torres, un’Italia che fa i primi passi in un’industrializzazione prossima a divenire selvaggia. Nonostante che la visione poetica delle cose sia in Tatge prevalente, non manca, dunque, la denuncia degli arbìtri che si perpetrano sul territorio. Emblematica, e quasi comica tanto è incredibile, l’immagine di una pianta di fico, Puglia 1999, imprigionata nel cemento, forse per delimitare una stradella di paese. Le foglie sono rade, l’agonia probabilmente lenta: una povera incolpevole vittima della stupidità umana. Per contrasto e rivendicazione, vogliamo pensare, il monumentale tronco di Cagliari 1999 (n. 98 cat.) che nella sua impressionante forza vitale, quasi belluina, fa risaltare la povertà delle cose intorno: il bazar, il tetto di un’automobile. Mani sulla città o comunque sul territorio, potrebbe essere il sottotitolo di alcune fotografie – Pietra Ligure, Sotto Roma, Cerchio d’acqua – attestanti una violenza che rasenta il crimine e il cinismo come Cava, foto giustamente scelta quale logo della mostra. Altra immagine di puro degrado da baraccopoli è il patetico alberello fiorito, una macchia di luce che appare, ironia della sorte, fuori contesto in un ambiente tanto svilito. In pieno contesto, invece, in una zona abbandonata e squallida, è il Cerchio d’acqua già citato. Tatge preferisce fermarsi poeticamente sull’acquitrino dove esercita il suo virtuosismo, davvero impareggiabile, di fotografo. Ma l’osservatore, specie se italiano, non può distogliere lo sguardo da quei residuati di edilizia che un immediato sospetto, confermato purtroppo da ben reiterate esperienze, indica come conseguenza di criminosa speculazione e abbandono. I pini mediterranei appena visibili sullo sfondo sono una firma inequivocabile e una nota malinconica: forse aldilà c’è Roma o magari il golfo di Napoli: Tatge per discrezione, forse, non ce lo vuol dire.
Data recensione: 31/10/2008
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Anna Maria Manetti Piccinini