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Originale e denso, questo saggio di Edwige Comoy Fusaro, docente di letteratura italiana presso l’Università di Nice-Sophia Antipolis, che ha come sottotitolo, Approccio epistemologico alle malattie nervose nella narrativa italiana (1865-1922), esplora i rapporti tra medicina e letteratura partendo da un tema che appare ricorrente nella narrativa dell’Ottocento, un secolo che ha addirittura meritato da parte di Paolo Mantegazza l’appellativo di “secolo nevrosico”. Come sottolinea François Livi nella presentazione, l’Ottocento fu «dominato, segnatamente nella sua seconda metà, da una malattia misteriosa: di là dalla nascita e dai progressi della psichiatria, che tenta di mettere a fuoco questa sfuggevole infermità, la nevrosi assurge progressivamente a simbolo del disagio dell’individuo, dell’esistenza di zone inesplorate della psiche, ma anche della crisi latente della società, osservata nei suoi aspetti patologici e patogeni. Da fenomeno individuale la nevrosi diventa fenomeno collettivo» (p. 5). Paradossalmente, il secolo delle grandi invenzioni tecniche e del trionfo delle scienze cosiddette “positive” si presenta come “secolo malato”, di una malattia che risulta impalpabile e dagli incerti confini, tanto da originare una vera e propria “moda nevrosica” per abbracciare campi molto diversi, dalla nascente psichiatria alla letteratura, dalla pittura alla morale. Come osserva l’autrice nella premessa, «la stragrande maggioranza delle opere narrative pubblicate nel secondo Ottocento mette in scena personaggi che manifestano sintomi nevrotici, sebbene il vocabolo “nevrosi” non venga quasi mai usato» (p. 24).
Nel ripercorrere le tracce del rapporto tra nevrosi e letteratura, l’esplorazione compiuta dalla Comoy Fusaro non si propone di svolgere un’analisi psicoanalitica delle opere letterarie, come hanno fatto altri critici, quanto piuttosto di far emergere da un lato il processo di “letterarizzazione” della medicina che avviene nella seconda metà del XIX secolo, dall’altro quello della “medicalizzazione della letteratura”. Il primo si riferisce sia a quello scambio di idee tra letterati e medici che avveniva nei salotti e nei circoli culturali, sia alla pretesa di molti medici – come, ad esempio, Paolo Mantegazza – di divulgare attraverso la forma letteraria nozioni e scoperte scientifiche o anche di trasformarsi in esponenti della cosiddetta “critica scientifica”, che guardava alla narrativa come a una collezione di casi clinici, valutando con rigore la coerenza del quadro sintomatologico e la correttezza scientifica. La “medicalizzazione” della letteratura, invece, ossia l’orientamento crescente dei narratori a privilegiare come tema la malattia nevrosica ben rispondeva all’esigenza di rinnovamento della narrativa di fine Ottocento, nonché al clima di crisi e di transizione che segna soprattutto il passaggio di secolo. La nevrosi, in questo senso, come topos narrativo, diventa una metafora: si sceglie “di giudicare ogni cosa attraverso il filtro del patologico” per alludere al carattere morboso dell’intera realtà, malinconica e irrequieta. Ma si tratta di una metafora paradossale: secondo la nota lezione pirandelliana, affermare che tutto è patologico equivale a negare la nozione stessa di patologia e di “normalità”, rendendo salute e malattia concetti incerti e relativi. Del resto, nevrotici appaiono anche gli stessi scrittori: da Verga a Capuana, da De Roberto a Oriani, fino a Pirandello e Svevo, le confidenze espresse in epistolari e diari sembrano confermare quel binomio di genio e follia che Lombroso aveva teorizzato nel saggio Genio e follia (1864) e approfondito nel successivo L’uomo di genio (1888). Se Proust affermava che “senza malattia nervosa non si è grandi artisti”, qualcun altro, pur non gradendo l’epiteto di “mattoide letterario” coniata da Lombroso, si dichiarava volentieri, come Fogazzaro, “inetto”, purché la malattia fosse condizione e prezzo di una chiara superiorità spirituale.
Con ricchezza di citazioni, l’autrice opera un’attenta ricognizione delle diverse forme di nevrosi che affiorano nei personaggi di tanti romanzi e novelle di fine Ottocento. Nevrosi-tabù, nevrosi dissociative, nevrosi degenerative: il panorama è ampio e la Comoy Fusaro lo esamina affrontandolo costantemente con le teorie psichiatriche nascenti ed emergenti. Particolarmente interessante il capitolo dedicato alla nevrosi femminile per eccellenza, l’isteria, presentata da molti autori del tempo come una semplice variabile quantitativa della fisiologia della donna, la quale, “anima inferiore”, secondo la definizione di Capuana, è spesso descritta come se fosse priva di interiorità. Su questo punto letteratura e medicina sembrano rafforzare a vicenda la loro visione della donna, la prima narrando le vicende di donne che sono semplici corpi opachi, perché privi di anima, la seconda, soprattutto quella di tendenza lombrosiana, paragonando il cranio femminile a quello del bambino o del demente.
Come sottolinea la stessa autrice, dal confronto tra medicina e letteratura, quest’ultima esce senz’altro vincente. L’intuizione dello scrittore, anche di chi si dichiara decisamente positivista, la sua capacità di indagare intenzioni e passioni dell’animo e di coglierne pieghe e sfumature offre un quadro dell’umano di gran lunga più efficace di quello della contemporanea psichiatria. Non a caso, la psicoanalisi e la psicoterapia in generale faranno ricorso proprio alla narrazione come ad un indispensabile strumento diagnostico e terapeutico.
Data recensione: 01/12/2009
Testata Giornalistica: MEDIC - Metodologia Didattica e Innovazione Clinica
Autore: Maria Teresa Russo