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Da oggi fino al 4 luglio il Rettorato dell’Università degli Studi di Firenze (piazza San Marco 4, Firenze) ospiterà la mostra di Onofrio Pepe Athena in Athenaeum (tutti i giorni 9-18, chiuso il sabato e la domenica). 24, tra

Da oggi fino al 4 luglio il Rettorato dell’Università degli Studi di Firenze (piazza San Marco 4, Firenze) ospiterà la mostra di Onofrio Pepe Athena in Athenaeum (tutti i giorni 9-18, chiuso il sabato e la domenica). 24, tra bronzi e terrecotte, saranno le opere esposte, per lo più erme e stele per un allestimento in cui predomina la dimensione verticale. Nell’attività di Pepe, scultore salernitano da molti anni a Firenze, sono sempre prevalsi il mito e la classicità: il ciclo di opere create appositamente per questa occasione ruota intorno alla figura di Atena. Così l’ateneo fiorentino da oggi assolverà letteralmente, anzi etimologicamente, alla propria funzione: athénaion in greco significa ‘tempio di Atena’, dea della sapienza, e per più di due mesi sarà anche il tempio dell’Atena di Pepe. Ella è principalmente la divinità che incarna il senno, la ragione e il pensiero che porta
all’azione. Nonostante il suo armamentario bellico, si contrappone ad Ares, personificazione della guerra indiscriminata e violenta, per la sua forza e coraggio temperati da un sentimento di giustizia, benevolenza e generosa lealtà.
È inevitabile il confronto tra l’Atena di Pepe al rettorato fiorentino e l’Atena di Arturo Martini all’università romana della Sapienza, raffigurata come la dea guerriera invincibile con lo scudo levato in alto. Per Onofrio Pepe, al contrario dell’artista trevigiano, Atena è essenzialmente la dea della sapienza. Egli raffigura nel principale bronzo in mostra: alto più di due metri, collocato nel grande atrio del Rettorato, è visibile già dal centro di piazza San Marco. Oltre a uno
sguardo carico di umanità, Athena mostra i principali simboli in una visione tutta pepiana: in petto la testa di Medusa; sulla spalla la civetta, l’animale a lei sacro a cui si deve l’epiteto “glaucopide”, traducibile sia come “dagli occhi azzurri”, sia “dagli occhi di civetta”, da glaukós (azzurro) o glaux (civetta) e óps (occhio). Infine lo scudo che non ha più la funzione di strumento bellico, ma piuttosto di elemento secondario che Atena utilizza semplicemente come appoggio.
Nell’occasione della mostra le edizioni Polistampa pubblicano il catalogo con testi critici del curatore Francesco Gurrieri e di Sergio Givone in cui sono documentate fotograficamente tutte le opere esposte.
Questo evento artistico in onore della figura di Atena è il risultato della trentennale ricerca artistica di Onofrio Pepe che trova il suo fulcro nel tema della continuità del mito dalla filosofia greca alla cultura latina fino a oggi.
E il messaggio che Pepe sembra voler trasmettere è l’auspicato recupero dell’ateneo quale luogo privilegiato per l’affermazione della sapienza, da perseguire con la tenacia e l’impegno con cui si affronta una guerra, purché ordinata e costruttiva come insegna Atena.

ONOFRIO PEPE
Cenno biografico
Onofrio Pepe, nato a Nocera Inferiore (Salerno) nel 1945, diplomatosi presso l’Istituto d’arte di Salerno, vive e lavora a Firenze. Da Pæstum e da Pompei, luoghi dov’è palpabile l’eterna attualità del mito, Pepe trasferisce le suggestioni nella scultura, arte cui s’è accostato da autodidatta, con un iter del tutto personale. L’incontro con la scultura, di cui il maestro è uno dei protagonisti italiani, avviene però a Firenze, in uno dei pochi studi d’artista rimasti nel centro storico, nel quartiere di San Frediano. Pepe si perfeziona nell’espressione formale attraverso un’interrogazione assidua della scultura antica che lo libera dagli atteggiamenti imposti dalla rappresentazione barocca: la sua ricerca sul mito, fonte inesauribile di temi e soggetti, perseguita con grande coerenza da vari decenni, lo trasporta in un universo simbolico cui rende omaggio, ogni volta con sempre maggior finezza, quale dimensione sacrale.
Il suo esordio avviene negli anni Ottanta, quando giunge in Toscana, portando con sé l’umore di intere generazioni legate ai miti e alle leggende, i cui protagonisti ed episodi egli rivisita.
È il primo artista a inaugurare la stagione espositiva del Consiglio regionale toscano con la mostra il Percorso nel Mito (maggio-giugno 2001) nella quale presenta diciotto sculture monumentali e otto
bozzetti in bronzo e refrattario.
Nell’ottobre 2003 propone La Porta del Mito, nata dall’amore per Le Metamorfosi di Ovidio. Si tratta di una porta bronzea a due ante, alta più di tre metri, costituita da 42 formelle sul ‘recto’ e di una striscia di 6 sul ‘verso’, dove una scena continua rappresenta ‘La Danza dionisiaca’, a significare che l’ebbrezza dionisiaca rende possibile la rivelazione dei miti.
Nel 2005 espone la monumentale porta del Mito nel piazzale degli Uffizi e Carlo Azeglio Ciampi gli conferisce la medaglia d’argento della presidenza della Repubblica per alti meriti artistici.

IL TUMULTO PLASTICO DI ONOFRIO PEPE
Fra gli artisti che hanno scelto il mito come oggetto della loro identità, fra i più fedeli, c’è sicuramente Onofrio Pepe, che onora la Classe di scultura della gloriosa Accademia delle arti del disegno, fondata nel 1563. I temi privilegiati sono il mito d’Europa, Icaro, Demetra, Danae, Sisifo. La sua più vasta e sistematica narrazione mitologica è stata riposta nella grande Porta del Mito che la Banca CR Firenze sistemerà nella sua nuova sede di Novoli. Così questo nuovo “percorso del
Mito”, disteso fra le parti monumentali della sede del Rettorato a San Marco è una suggestiva proposta della grande scultura di questo Maestro (il cui apprezzamento si è ormai diffuso negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia), che precede la grande performance urbana – «Icarus on the Labyrinth» – programmata per altri luoghi della città di Firenze. Pepe ha fatto del mito la propria identità tematica, da sempre caratterizzata da una plastica sapiente che ha saputo assorbire la lezione di Arturo Martini e poi di Vangi e Mitoraj: dialogando col sentimento del mito e drenando da questo materia, linfa e aspirazione per rappresentare i drammi metastorici dell’umanità.
Continua ad esserci, nel percorso plastico di Pepe, un ‘protocollo’ con l’immortalità del linguaggio che fa dell’evento artistico un processo di ipostatizzazione capace di trasformare ciò che è relativo e contingente (la persona umana) in entità assoluta e metafisica: un processo di assolutizzazione del dolore, di «attraversamento della vita» (per dirla con Mario Luzi); con la vita, appunto, e con la morte. Così, a ben guardare, questo artista riesce a sollevare con la mitologia (che avevamo quasi dimenticata) il dolore e le tragedie dei nostri giorni. Ci sembra allora di poter dire che, ancora una volta, Thanatos, quale istinto di morte, esce sconfitto grazie a questo nobile processo plastico-figurativo. Quelli di questo artista sono anche i temi delle Metamorfosi di Ovidio: tutti percorsi da grande pathos e da differenti registri psicologici che toccano la passione, l’amore, la gelosia,
la follia, la mitezza, l’audacia, la seduzione, l’amor folle, la corte amatoria e altro ancora. Ed anche con la riproposizione dell’idea di stele, Onofrio Pepe mutua una tipologia della classicità, reinvestendo in contemporaneità. Il nostro Ateneo, ne siamo certi, saprà registrare l’evento, tornando anche a riflettere sul suo ruolo di incubatore e rigeneratore critico del sapere affidatogli.
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Onofrio Pepe, prima di arrivare alla Minerva (l’Athena di Pericle) che oggi troneggia in Rettorato, ha largamente sperimentato il tema mitologico (che poi è il suo unico tema identificativo), cimentandosi col Ratto d’Europa. «Il Mito d’Europa, da fanciulla rapita a continente» (mostra progettata da Cristina Acidini ed Elena Capretti), dette conto di questa ininterrotta fascinazione che, dalla metopa di Delfi (VI sec. a.C.) al mosaico pavimentale di Aquileia (I sec. d.C.), attraverso gli svolgimenti giambologneschi di Stefano della Bella e Luca Giordano, portava alle interpretazioni contemporanee di Topor, di Picasso, di Lipchitz. In questa ininterrotta linea iconografica, in tempi non sospetti (a partire dagli anni Ottanta), Onofrio Pepe ha consumato e fecondato la sua frequentazione artistica col mito, inteso come inesauribile memoria dell’identità umana, fino a identificarvi la sua intera produzione plastica. Troppe sono le esercitazioni letterarie, storiografiche, interpretative sul mito d’Europa per azzardare il privilegio di una sulle altre; e del resto, il mito può (o forse deve) godere di questa elasticità evocativa, così come dell’attenzione psicoanalitica che non risparmiò nemmeno Jung. Almeno su un punto non c’è spazio per il dubbio: che Europa e il Toro siano l’allegoria dell’amore, exemplum voluptatis, ove il tumulto dell’amplesso è la cifra dominante e distintiva. Ma anche il viaggio della fanciulla che va per mare su un toro innamorato, trepidante e ambigua fra consenso e spavento, è qualcosa che oggi torna a far allusivamente sognare. Paradossalmente, perdute tante certezze, si torna a sfogliare le pagine del tempo, per trovarci ancora punto e da capo, nel mistero affascinante e metaforico della spiaggia di Sidone, ove si consumò il rapimento d’amore. Anche così si cancella l’immagine di un degrado universale, ove, oggi, ci sono carcasse di aerei, di autoblindo insabbiate, di suppellettili di guerra, come Kiefer ci ha ormai abituati a considerare.
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Così, oltre la querulomania, lamentosità patologica che tutti tocca, Onofrio Pepe ci aiuta, delineando una profilassi di vita nuova; suggerendo un ‘differenziale civile’ capace di riportarci, almeno, ai lineamenti di un’opzione di nuovo sviluppo, con una nuova conciliazione con l’ambiente, migliore di quanto si sia stati capaci di avere fin qua. Pepe ha fatto del mito la sua personale metafora, la sua ragione di vita; e il mito è ormai il suo consolidato archivio mnemonico, ideologico, creativo. Il mito come trama unica, monovalente della sua opera; come fabula che, per altri, sarebbe struttura narrativa; qualcosa da cui prende forma e anima ogni sua espressione plastica, trasformando in materia l’eroico tempo lontano; e anzi enfatizzandola, a misura del suo allontanamento temporale. E così ci trasporta, anche se solo per un momento, fra mythos e logos, fra racconto fantastico e dimostrazione della verità. L’ultima stagione creativa di Pepe – che esordisce nell’80 alla galleria Inquadrature, che si consolida nella raffinatissima «Inter Antiqua Nova» di Alessandro Romano Antichità, trova nella mostra «Il volo di Icaro» del giardino di palazzo Viva-
relli Colonna e nel «Percorso nel Mito » del palazzo della Regione Toscana – è divenuta intensa, con numerose committenze, fra cui spicca la grande Porta del Mito.
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Il tumulto di questo artista è sempre una lezione di misura, circondata di feconda empatia, di emozione, di misurato erotismo: tutti moti positivi dell’anima che ci avvicinano all’opera d’arte; e questa capacità endogena della plastica di Pepe di ricomporre il dialogo con l’arte, sembra essere – posso testimoniarlo, ormai, in innumerevoli casi – la cifra distintiva di Pepe. La sua facoltà evocativa e inventiva, la sua grande confidenza con la tecnica, producono quel risarcimento culturale necessario ad allontanarci da una cultura fracassona che ha ormai occupato tutti i luoghi della produzione mediatica. E dunque appare giusto che questa ‘psicoterapia’ storico-artistica avvenga pro-
prio nella sede deputata alla trasmissione e alla elaborazione critica della cultura.
La grande statua di Athena (e i suoi studi preparatori, in ostensione nell’atrio del Rettorato), coincidente con la latina Minerva, è la bellissima figlia di Zeus che, per qualche tempo, incontreremo
entrando in San Marco: un impatto che ci riporta al «Giardino di San Marco» che, dirimpettaio nella stessa piazza, alcuni secoli fa, fu vivaio di insuperabili maestri rinascimentali. Ma Athena, pur col suo assetto guerriero, ci riporta, soprattutto, alla sapienza, alla conoscenza operosa, all’intelligenza delle arti; evoca la sua collocazione trionfale nel Partenone di Fidia e nell’inimitabile città di Pericle; ci spinge a fare, della cultura, la vera e naturale arma di combattimento contro la di-
struttiva schizofrenia della nostra stagione. E allora bisogna essere grati a chi ha consentito questa occasione, che ci riporta – per un momento – ad una autentica stagione vasariana, ove la letteratura, le arti e la scienza procedevano con quella isotropia intellettuale che fece grande l’ininterrotta stagione della civiltà del Rinascimento, consegnandosi a Galileo e alla prosa scientifica; grati a Onofrio Pepe, che ci riaccompagna in un mondo che credevamo di aver perduto.
FRANCESCO GURRIERI

PER ONOFRIO PEPE
Sono molte le vie del mito. Per lo più risalgono verso le origini, dov’è custodito il senso di gesti arcaici e sacrali di cui abbiamo perduto memoria e che tuttavia ci appartengono ancora. Possono
però andare verso il futuro e tracciare utopie, additare lo stupefacente e il meraviglioso e addirittura l’impossibile, mettere in movimento gli orizzonti che abbracciano e trascendono la storia. Ma possono anche cader dentro il presente. È lì, nel presente demitizzato e disertato dagli dei e dal divino, che il mito ritesse sorprendentemente la sua tela. Non sono forse questi nostri tempi infelici ad essersi nutriti di favole grandiose e seducenti, ancorché fallimentari, oltre che cariche di rovina e di terrore? E non è un fatto che il dominio dei mezzi d’informazione e prima ancora d’invenzione ha finito col trasformare il mondo in una specie di sogno collettivo? Perciò siamo chiamati, com’è stato detto giustamente, a un incessante «lavoro sul mito» (Hans Blumenberg). Quanto più il mito sembra essersi eclissato e allontanato da noi, tanto più abita le nostre vite. Mito è non solo la proliferazione e l’effimero sfolgorio degli idoli, da cui volentieri ci lasciamo abbagliare e a cui ancor più volentieri sacrifichiamo. Mito è anche la fonte alla quale continuamente attingiamo. Non c’è specchio che al pari di questo, come si dice che nell’antichità accadesse nei luoghi in cui venivano celebrati i misteri, costringa ciascuno a incontrare il proprio sé più remoto e più intimo e a fare i conti con il proprio sosia più inquietante. Ma prima di quest’opera di interrogazione (e, come suol dirsi, di decostruzione) del mito viene la riscoperta e la ripresa del mito. Si tratta di un fenomeno ben noto. Nei suoi momenti più alti la grande cultura europea ha teorizzato la necessità di un ritorno all’antico. Così è stato nel Rinascimento, quando si guardò al paganesimo non solo e non tanto in chiave anticristiana ma spesso con la convinzione che lo stesso cristianesimo ne sarebbe uscito rinnovato e rigenerato. E così è stato per il classicismo più tardo e per il neo-classicismo, con il ricupero del patrimonio mitologico e simbolico dei greci e dei romani in chiave estetica, ma nella certezza di irrorare di nuova linfa le esangui forme dell’arte. Sono due episodi molto diversi fra loro, naturalmente. Comune all’uno e all’altro è però l’idea che un mondo apparentemente inabissatosi e perduto per sempre sia ancora cosa nostra e da quelle profondità giunga a noi una chiamata e una provocazione. Sempre di nuovo le voci e le immagini della mitologia ci raggiungono e tornano a sorprenderci, toccandoci nel vivo. Anche oggi. A conferma del
detto secondo cui il mito racconta cose che non sono mai accadute ma che sono sempre, poiché sempre con noi sono le potenze che governano la nostra vita, sia che mostrino la strada sia che ingannino. E così può accadere che in una bottega fiorentina di là d’Arno il mito mostri un suo irriducibile tratto d’inattuale attualità. Grazie all’opera di Onofrio Pepe, scultore. Nel suo prendere il mito a tema e a contenuto essenziale della sua poetica, Pepe si fa guidare dai grandi testi del
passato che ne hanno mediato la trasmissione letteraria: le Metamorfosi di Ovidio, principalmente, poi gli Inni orfici, le tragedie euripidee, ma anche Luciano di Samosata, Nonno di Panopoli e così
via. Ma la sua non è in alcun modo una ricerca erudita. E non è neppure interpretazione. A Pepe non importa tanto portare alla luce presunti significati nascosti (o “riposti”, avrebbe detto Giam-
battista Vico). Importa piuttosto ricreare il mito, attraverso variazioni che sono reinvenzioni e reinvenzioni che sono variazioni. Pepe fa sua la logica del mito e mostra di sapere che mythos e logos, ben lungi dall’opporsi e dall’escludersi a vicenda, sono strettamente intrecciati, e infatti non c’è mythos che non sia sorretto da un suo logos, così come non c’è logos che non sia preceduto e inaugurato da un suo mythos. Formidabile macchina generatrice di storie, il mito sembra raccontare sempre la stessa storia, ma in realtà ciascuna differisce da tutte le altre e non ce n’è una che valga come modello o come archetipo. Non esiste spartito originale, esiste unicamente la variazione, e il mito nasce come variazione, tant’è che ognuna di esse ha la sua verità e nessuna può arrogarsi di essere quella vera. Lo stesso vale per questo mitografo nostro contemporaneo che è Pepe. Egli accoglie dalla tradizione i racconti destinati a trasformarsi in figure, in immagini. Ma nel momento in cui le accoglie, le ricrea. Singolare, creativa ricezione, che trasforma le favole antiche in icone del nostro più oscuro desiderio e del nostro dolore. Quel desiderio che è eros, forza onnipervasiva che è in tutto e in tutti. Quel dolore che è memoria di una patria celeste a cui siamo stati strappati. Una ferita immedicabile è nel cuore della vita – ogni vita – e il mito ne è testimone. Anche se l’intera mitologia è un inno alla vita e non fa che celebrarne il trionfo, sia che dica il primato dell’essere sul nulla sia che indichi al di là della morte l’eterna rinascita, ogni sua espressione porta con sé la traccia di una sconfitta e di una perdita irreparabile. Questo dipende sicuramente dal fatto che noi ci rivolgiamo al mito da una distanza quasi infinita e come dopo una catastrofe. Ma la ragione decisiva è un’altra. Ed è che mentre esalta la vita in tutte le sue manifestazioni, il mito indica lo sfondo di tenebra da cui tutto proviene e in cui tutto sprofonda. Onofrio Pepe trae fuori da una lunga notte gli dei e gli eroi, restituendoli allo splendore della forma. Ma, tra le moltissime che popolano il suo universo mitologico, non c’è forma che non sia scheggiata, lacerata, trafitta da un segno di violenza e di lutto.
SERGIO GIVONE

Conferenza Stampa lunedì 28 aprile 2008 ore 11.30
Insieme all’Artista interverranno
Sergio Givone
Francesco Gurrieri

Inaugurazione lunedì 28 aprile 2008 alle ore 17.30

29 aprile - 4 luglio 2008

Università degli Studi - Rettorato
Piazza San Marco 4
Firenze
Data recensione: 28/04/2008
Testata Giornalistica: Teknemedia
Autore: ––