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Ho contratto un debito verso il prof. Gualberto Alvino e spero finalmente di poterlo onorare. A seguito d’una mia esplicita richiesta, dopo la lettura di questo post dell’amico lentore, Gualbertò Alvino mi inviò

Ho contratto un debito verso il prof. Gualberto Alvino e spero finalmente di poterlo onorare. A seguito d’una mia esplicita richiesta, dopo la lettura di questo post dell’amico lentore, Gualbertò Alvino mi inviò gentilmente il suo romanzo inedito “Là comincia il Messico”. Che ho letto più volte (sarebbe meglio dicessi “ho divorato”), ma intorno al quale, fino a questo momento, non ho avuto il coraggio di spiccicare verbo alcuno. Perché “Là comincia il Messico”  è uno scritto veramente sconcertante. Ha squinternato, scardinato e messo in crisi la pochezza delle mie prospettive sulla lettura. Del resto, e non ne faccio di certo un mistero, non mi reputo che un lettore (e postatore, qui) per hobby. Giovedì scorso ho potuto assistere a Roma ad una conferenza su Antonio Pizzuto. È stata, quella, una splendida occasione per incrociare sguardi e strette di mano di persone che fino allora erano solo ectoplasmi di rete. Tra questi, Gualberto Alvino. Più tardi in metropolitana, leggiucchiando “Salons” di Manganelli, mi sono imbattuto in un pezzo il cui titolo è “Illustrazioni per libri inesistenti”. M’è parso fosse una sorta di mònito a riscuotermi da questa accidiosa e pervicace reticenza a parlarne. “Là comincia il Messico” è purtroppo a tutt’oggi un libro inesistente. Ed è un vero peccato (mi torna alla mente quanto s’è detto a quel convegno, riguardo alla dinamica editori-consumatori, all’appiattimento dei gusti e degli stimoli verso un nongusto ed un nonstimolo omologati). È un peccato perché Gualberto Alvino vellica e soddisfa pienamente qualsivoglia predilezione per forme espressive gustose e dense di senso, per tutti i barocchismi, (gaddismi, manganellismi, pizzutismi) (“iobocca: perpetuo mastichìo del nonpensarmi”), e contorsioni, e circumvoluzioni, ciò che è eccessivamente scabro o ridondante, ciò che è succosamente compiacente, certi lemmi pastosi, inusuali, desueti, i periodi brevi, secchi e sincopati, e nondimeno quelli dove la prosa s’allunga e tende all’infinito e la punteggiatura assume il ruolo, direi senz’altro la grande responsabilità, di coniugarsi e di fondersi alla metrica realizzando misteriose sincronie. Una danza, il fondo schiena del fantino con la groppa, una qualunque, d’un cavallo che è al trotto, montato all’inglese. “Là comincia il Messico” è un percorso sinusoidale verso il delirio, cui pare alludere l’avvinghiarsi di certi toni e timbri rari, ricercatissimi, austeri, fortemente inquietanti, un incalzare di dissonanze sullo sfondo. Il lentore dice che “è un testo che lascia in secondo piano il significato, a tutto vantaggio della forma”. La forma, in fondo, è tutto ciò che aggredisce, ciò che s’infiltra immediatamente nei nostri sensi. Su quest’impatto, sull’esito piuttosto di quest’impatto, il cervello riflette, rumina, medita lungamente. Si ha il senso, leggendo questo testo, che il Messico sia un implicito confine. Una soglia ontologica. Tutto ha un suo senso pieno, tutto si muove in una ribollente sintonia, all’interno e all’esterno di una discriminante. Opinabile, incerta, relativa, forse del tutto e solo affabulatoria. La dedica in un certo senso lo dichiara:“Tante parole, in vista del confine”.
Data recensione: 02/12/2006
Testata Giornalistica: CalMa
Autore: ––